Roma e il cinema

giovedì 9 novembre 2023

Jeanne du Barry, Maïwenn (2023)



“Jeanne du Barry” è uno di quei film che mentre lo guardo mi conquista con grande rapidità, sprofondo nella poltrona e mi faccio rapire senza opporre resistenza, godendomi le inquadrature perfette, i sontuosi costumi Chanel, la fotografia impeccabile, gli accostamenti cromatici raffinati e splendenti. Johnny Depp, reduce da una lunga assenza durante la quale è stato oltremodo chiacchierato, dà il meglio di sé interpretando un Luigi XV che sotto i nostri occhi passa dal tormento per la perdita di Madame de Pompadour alla ritrovata joie de vie che l’affascinante Jeanne gli regala per pochi anni felici, gli ultimi. Maïwenn gira e interpreta un film che va giù come un bicchiere di champagne, esco dal cinema appagata e in cuor mio ringrazio il cielo che i tempi siano cambiati, che la necessità delle donne di difendere il loro posto nella società non dipenda più solo dalla bellezza e da un uomo, che le ghigliottine siano diventate oggetti da museo. Per qualche ora galleggio nel sospiro del grande amore che la Favorita ha saputo suscitare nel re, continuo a dolermi per la fine che li attende al varco, richiamo le scene più belle, mi domando per l’ennesima volta da dove le donne attingano la forza per tirarsi fuori dal pantano della povertà e dell’ignoranza. Poi lentamente le impressioni si attenuano, passano un paio di giorni e mi accorgo che il film che mi era tanto piaciuto è come un guscio luccicante al cui interno spira un venticello fresco e leggero, o poco di più.

Io capitano, Matteo Garrone (2023)



“Io capitano”, l'ultimo film di Matteo Garrone, ha il dono di coinvolgere lo spettatore in modo totalizzante dal momento in cui comincia – con la lunga sequenza in cui il giovane protagonista si sveglia in Senegal, nella sua casa sovraffollata e rumorosa, piena di sorelle che giocano e parlano a voce alta – fino alla scena finale, di cui non dirò nulla perché la fine non è affatto scontata e nel caso siate riusciti miracolosamente a non scoprirla nel frattempo, non voglio certo essere io ad anticiparvela. Tra questi due poli, uno intriso di caotica tenerezza, l’altro di pura adrenalina, scorre una storia che è come un fiume, denso di contenuti concreti, di immagini crude che pesano come macigni, ma anche di immagini oniriche colorate e leggere che fanno rifiatare l’anima del ragazzo, e un po’ anche la nostra. Garrone, lo ricordiamo, ha girato film come “Dogman”, “Il racconto dei racconti”, “L’imbalsamatore”, “Pinocchio”, “Gomorra”, in cui la sua personalissima vena immaginifica e poetica era esaltata dalla crudezza di una narrazione vivida, potente, a tratti quasi iperrealistica. In “Io capitano” mi è sembrato di cogliere, oltre alla commistione di tutti gli elementi che continuano a caratterizzarne lo stile, un intento di denuncia più spiccato, più netto. Lo spettatore non viene più soltanto accompagnato alla scoperta di un mondo, ma viene profondamente coinvolto sul piano etico. Poesia e denuncia si alternano in una ballata che ci scuote fin nelle viscere, facendoci sentire sulla nostra pelle tutto quello che il ragazzo, che potrebbe essere nostro figlio, nostro fratello, ingiustamente patisce. Un film da vedere, da mostrare, da portare nelle scuole, nelle piazze, ovunque.

L'ordine del tempo, Liliana Cavani (2023)



"Cosa fareste se sapeste che il mondo sta per finire?”, chiede Liliana Cavani ai protagonisti del suo ultimo film “L’ordine del tempo”, tratto dall’omonimo saggio dello scienziato-scrittore Carlo Rovelli (qui anche sceneggiatore). Le risposte sono le più varie. Quando la prospettiva della fine diventa concreta e incrina l’atmosfera rilassata dei giorni di vacanza di un gruppo di vecchi amici, radunati in una villa sulle dune di Sabaudia per festeggiare il cinquantesimo compleanno della padrona di casa, ciascuno di loro racconta al compagno/a, moglie/marito o all’amico/a il sogno che si è distrattamente lasciato sfuggire, l’obiettivo che non ha raggiunto, l’intento a cui non ha saputo dare corpo. Quel sogno, quel desiderio, quel bersaglio mancato, di fronte al timore della morte, ricompare e diventa una scheggia di rimpianto, la constatazione di una mancanza inspiegabile, di una rinuncia in fin dei conti inutile. Senza arrivare all’epilogo del racconto, che scoprirete da soli se andate a vedere il film, il focus a cui la Cavani ci inchioda come sulla croce è questo: perché capita frequentemente che ci si perda durante il viaggio? Perché ci succede così sovente di smarrire il bandolo della nostra personale matassa? Perché alla fine dei giorni ci tornano in mente proprio le promesse che ci siamo fatti da giovani e che non abbiamo mantenuto? Perché percepiamo oscuramente di esserci traditi? Perché questo tradimento ci addolora così tanto?

Il tempo - misterioso, inafferrabile, in perenne movimento – scorre ineluttabile ma ci illude di poter sempre tornare al punto di partenza per portare a termine quello che desideriamo, invece non è così. Il tempo, quantomeno per noi esseri umani, è una risorsa breve e drammaticamente finita, ma non riusciamo a capirlo altro che quando ci troviamo di fronte a una cesura, a un grave avvertimento, a un ribaltamento dell’ordine delle cose. In realtà, sembra dirci questo film - tutt’altro che pessimista, credetemi -, il nostro piccolo mondo umano è costantemente sul punto di finire, il tempo a nostra disposizione è di fatto destinato ad esaurirsi. Potrà succedere con gradualità oppure di colpo, starà a noi cercare di capire, almeno in parte, il senso del nostro passaggio. Fortunati coloro che avranno il privilegio della consapevolezza, potranno prepararsi un po’ per volta arrivando alla fine del gioco con gli occhi aperti.

The Palace, Roman Polanski (2023)



“The Palace”, l’ultimo film di Roman Polanski mi ha divertita moltissimo, mi sono goduta ogni scena, ogni dialogo, ogni gag. Nonostante sia tutto molto prevedibile – intreccio, battute, situazioni – è come una ottima pietanza tradizionale a base di materie prime eccellenti molto ben cucinate, non spiazza, non sorprende, ma semplicemente appaga; non è poco. Due ore di rutilante spettacolo in cui attori consumati del calibro di Mickey Rourke, Sidney Rome e Fanny Ardant animano una grottesca festa di capodanno dell’anno 2000, quello della paura del millennium bug, in un lussuosissimo hotel sulle Alpi svizzere dove convergono tutti gli stereotipi umani del mondo dei super ricchi e degli arricchiti. Ci sono milionari russi con seguito di modelle bellissime e perennemente brille, politici corrotti, bancari integerrimi che precipitano nel vizio, ex star cinematografiche ormai tumefatte dai troppi interventi estetici, chirurghi plastici con mogli malate di alzheimer, cani viziati che defecano sul letto, e perfino un pinguino che un ricco magnate regala alla moglie ventenne per il primo anniversario di matrimonio. A fare da contrappasso a questa pletora di vip dissennati e straripanti di denaro mal speso, vi è l’esercito di cameriere e concierge guidati dall’ineccepibile direttore d’albergo superbamente interpretato da Oliver Masucci. Il contrasto tra i due mondi che mettono in risalto le rispettive debolezze non è certo una novità, ma Polanski in questo film non vuole stupirci, vuole divertirsi, e soprattutto vuole farci divertire, alle spalle di quegli stessi ricchi che in altri film ha graffiato con ben più sottile crudeltà.

Felicità, Michela Ramazzotti (2023)


Felicità”, opera prima di Micaela Ramazzotti nelle vesti di regista è un film imperfetto ma, è il caso di dirlo, felice. Nonostante personaggi che a tratti rischiano di sconfinare nel macchiettistico, soluzioni drammaturgiche un po’ tirate via, caratteri che non vengono sempre fuori come dovrebbero, la storia c’è, il ritmo anche, gli attori funzionano e la fotografia di Luca Bigazzi è come sempre intensa. La storia è di quelle che lo spettatore trangugia golosamente: due
fratelli adulti - Desiré e Claudio – che provengono da una famiglia disfunzionale in cui i genitori, egoisti e superficiali, li hanno costantemente manipolati senza troppi rimorsi, alle prese con le difficoltà della vita. Lunghi anni trascorsi in una cuccia tossica di dolore, equivoci, pressioni, indifferenza, amore distorto, sensi di colpa, hanno minato nel profondo la capacità di Desiré e Claudio di crescere bene, di vivere bene, di diventare persone equilibrate, di lavorare, di avere relazioni affettive paritarie. Intossicati da qualcosa a cui non sanno neppure dare un nome –disfunzionalità -, i protagonisti hanno imparato soltanto a rimanere a galla. Desiré per un gesto d’amore si fa andare bene tutto, si accontenta delle briciole, chiude gli occhi davanti all’egoismo senza rimedio di coloro che invece di darle ciò che merita, senza chiedere nulla in cambio, le riservano disattenzione e indifferenza ogni volta che cerca di affermare se stessa; Claudio, più fragile, resta intontito dagli urti della vita, stritolato tra il desiderio di compiacere il padre e il non sapere cosa realmente vuole per sé. Desiré, più tosta e vitale, in qualche modo è riuscita ad allontanarsi dalla famiglia e combatte ogni giorno una battaglia disordinata ma efficace per farsi spazio nel mondo. Claudio, una volta rimasto solo, scivola lentamente nell’abisso della depressione divorato dalle manipolazioni dei genitori, alcune a fin di bene, dettate da un miscuglio di ignoranza, pregiudizi e superficialità. Il film, in realtà, comincia qui e racconta come l’amore che unisce i due fratelli – sincero, autentico e intoccato – riesca in qualche modo a salvarli. Perché la felicità, come l’amore, non è mai frutto di un baratto, non scaturisce dall’assecondare le aspettative e i desideri di genitori o compagni. La felicità è una scelta e riguarda il rispetto che abbiamo verso noi stessi, il raggiungimento dell’obiettivo che ci siamo prefissi, la serena condivisione di sentimenti maturi e sinceri. Michaela Ramazzotti interpreta Desiré con appassionato trasporto e cerca in tutti i modi di trasmettere anche agli altri personaggi la medesima urgenza, lo stesso fuoco. Non ci riesce in pieno, ma il film è potente lo stesso e arriva dritto al cuore. 

Dogman, Luc Besson (2023)



Una settimana fa ho visto “Dogman”, il nuovo film di Luc Besson, volevo scrivere qualcosa a caldo, ma non sono riuscita a farlo. Nei giorni seguenti ho pensato spesso al motivo per cui non riuscivo a tornare con calma sul film,che pure mi era piaciuto nonostante i clamorosi difetti che più o meno tutti hanno rilevato. Non ho trovato spiegazioni soddisfacenti, posso solo dire che ho dovuto aspettare che l’emozione si stemperasse. Il film si apre con una citazione famosa per tutti quelli che come me vivono con un cane: “Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane”, del poeta e scrittore francese Alphonse de Lamartin. Non aggiungo altro. Il film, che – lo ripeto – ha un sacco di difetti, è come una gigantesca onda di amore per questi esseri che rendono la nostra vita molto più bella e accettabile di quanto possiamo mai meritare. Doug, il protagonista interpretato da Caleb Landry Jones (attore pazzesco che spero ci farà sognare a lungo), deve a loro non solo la sua sopravvivenza, che già basterebbe, ma soprattutto la sua infinita capacità di empatia, di dolcezza, di ingenuità. Un personaggio che da una parte sembra tenere per mano Hannibal de “Il silenzio degli innocenti”, con tutto il suo carico di irresistibile e orribile fascino, e dall’altra il bambino del secondo straziante episodio di “The Hours”, film di Stephen Daldry (Billy Eliot, The Reader etc) del lontano 2005. Un personaggio che mi è rimasto nel cuore, di quelli che vorrei esistesse davvero per andare a conoscerlo, per avere la sua attenzione almeno per un momento. Perdono a Luc Besson tutte le imperfezioni perché capisco che deve essersi trovato come se avesse scoperchiato il vaso di Pandora. Se amate i cani andate a vederlo e siate indulgenti, è un film d’amore e in amore si sbaglia quasi sempre.


C'è ancora domani, Paola Cortellesi (2023)



Sono finalmente andata a vedere “C’è ancora domani” di e con Paola Cortellesi. Era già stato detto tutto di questo film e per quanto mi fossi astenuta dal leggere commenti e recensioni e avessi cercato in ogni modo di evitare di guardare e leggere le numerose interviste mandate in onda e pubblicate, sono entrata nella sala cinematografica con la sensazione di avere già visto il film prima ancora che le luci si abbassassero. Fortunatamente mi sbagliavo. Per quanto il trailer
avesse fatto in tempo a scavare uno storico che ormai aveva vita propria nella mia testa, il film – bello, commovente, intelligente – è uscito fuori dallo schermo e si è posato sulle file affollate di noi spettatori come una grande e luminosa coperta fatata. E così, da quel pugnello di immagini viste e riviste e dalle frasi involontariamente orecchiate al bar, sulla metro, in ufficio, è balzata sullo schermo tutta la verità dell’omaggio a Delia. Un omaggio a tutte le donne che hanno fatto una vita amara, faticosa, che come lei hanno cresciuto figli, sopportato padri e mariti, sognato antichi amori, sperato vite diverse, senza contare mai nulla nella società. Delia, con la sua magrezza, i suoi zigomi, gli occhi vivi, morbidi e belli, sempre pronta al sorriso, all’ironia, le incarna tutte, le rappresenta, le racconta. Delia che accetta senza lamentarsi la sua condizione, senza mai perdere la grazia, con dignità, sapendo sempre da che parte stare, con la schiena dritta e lo sguardo fermo. Delia che risponde a tono anche se poi la paga cara ma non è una ribelle, semplicemente vuole dire la sua perché sente di averne il diritto. Delia che aderisce con naturalezza al suo ruolo ma non abbassa gli occhi, non tradisce se stessa, preferisce un occhio nero alla vergogna di non riuscire a guardarsi allo specchio. Delia che ingoia l’amarezza e scrolla le spalle, serbando gesti di gentilezza nonostante tutto. Che deciderà di fare un passo in più solo quando si renderà conto che è necessario per il bene della figlia, perché non tollera l’idea di passare su questa terra senza lasciarle un’eredità preziosa anche se intangibile. Il cammino sarà lungo – lo è ancora – ma quello che conta è fare il primo passo. E Delia lo fa, con l’incrollabile fiducia nella vita che la caratterizza e che ce la fa tanto amare.