tag:blogger.com,1999:blog-16194360814003238392024-02-08T03:27:54.671+01:00La grande illusione. Appunti di cinemaErica Shttp://www.blogger.com/profile/02396576460609719108noreply@blogger.comBlogger38125tag:blogger.com,1999:blog-1619436081400323839.post-42659199775923184132023-11-13T14:56:00.000+01:002023-11-13T14:56:05.997+01:00<p> <span style="color: #ffa400; font-family: arial; font-size: medium;"><b>A passo d'uomo, Denis Imbert (2023)</b></span></p><p><span style="color: #ffa400; font-family: arial; font-size: medium;"></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="color: #ffa400; font-family: arial; font-size: medium;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjNbJ5seaujigzRd6IDVXZJpoiEzNpjuAT1xMhPzrpXG3pgrJmUwe7ajLi5ysyqJvCWEKoNbBgc9Djpv97hJl6F3j1Kb_0G994e1mqiduA3ixUmNc294q79Mh52XpzJOGUwqf9S1bnJHxuLqlHByfI1gCl4NGGRm5Ot56pAhHsCkIyIePAIfU5HHAUB/s1280/a%20passo.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="720" data-original-width="1280" height="303" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjNbJ5seaujigzRd6IDVXZJpoiEzNpjuAT1xMhPzrpXG3pgrJmUwe7ajLi5ysyqJvCWEKoNbBgc9Djpv97hJl6F3j1Kb_0G994e1mqiduA3ixUmNc294q79Mh52XpzJOGUwqf9S1bnJHxuLqlHByfI1gCl4NGGRm5Ot56pAhHsCkIyIePAIfU5HHAUB/w538-h303/a%20passo.jpg" width="538" /></a></span></div><span style="color: #ffa400; font-family: arial; font-size: medium;"><br /><b><br /></b></span><p></p><p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm;"><span style="line-height: 107%;"><span style="font-family: arial; font-size: medium;">“A Passo d'Uomo”, il film diretto da Denis Imbert, tratto
dall’autobiografia di Sylvain Tesson, è la storia di Pierre (Jean Dujardin), un
noto scrittore appassionato di viaggi avventurosi e di montagna che a un certo
punto della sua vita si trova a fare i conti con la perdita della cosa su cui
aveva sempre potuto contare: il suo corpo forte e atletico. Di colpo il quesito
che prima o poi tutti si pongono – che senso ha la mia vita? – si abbatte su di
lui e lo costringe ad affrontare una ricerca interiore che lo condurrà alla
salvezza. <o:p></o:p></span></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm;"><span style="line-height: 107%;"><span style="font-family: arial; font-size: medium;">In seguito a un incidente, che il film disvelerà
gradualmente, Pierre si risveglia dal coma pieno di ferri e di tubi in un letto
d’ospedale. <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>Il medico che lo visita dopo
alcune settimane gli prospetta di poter andare a trascorrere l’estate in un
centro di riabilitazione. Pierre non prende neppure in considerazione l’ipotesi
e gli risponde che lui, quell’estate, sarebbe andato a fare un lungo cammino.<o:p></o:p></span></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm;"><span style="font-family: arial; font-size: medium;"><span style="line-height: 107%;">Il film non si sofferma sulla convalescenza, ma procede a
salti e ci troviamo rapidamente a seguire l’impresa: 1300 kilometri</span> <span style="line-height: 107%;">dal parco del Mercantour, nel sud est
della Francia, fino alle falesie del Jobourg all'estremo ovest della Normandia,
attraversando in diagonale l'intero paese e percorrendo solo piccoli sentieri
fuori dalle rotte turistiche.<o:p></o:p></span></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm;"><span style="line-height: 107%;"><span style="font-family: arial; font-size: medium;">Che dire di questo film? Mi trovo quasi in imbarazzo a
commentare l’emozione che mi ha suscitato vedere il protagonista completamente
solo in mezzo a scenari naturali di una bellezza da mozzare il fiato. Sentire
il respiro affannato che quando si cammina così a lungo diventa il tappeto sonoro
di intere giornate oppure il ticchettio delle racchette che segnano il passo. Vedere
le mucche che pascolano libere, udire la dolcezza del vento tra le foglie, provare
il sollievo dell’acqua che gorgoglia fresca nel torrentello. Pierre è rimasto
sordo da un orecchio e ha problemi di equilibrio, ma non si concede scorciatoie
e sceglie sempre le vie più ardue, i passaggi più scoperti, le discese più
pericolose. Non tollera le mezze misure e vuole farcela ad ogni costo. Anche
per questo decide di dormire all’aperto per tutta la durata del cammino
accendendosi il fuoco ogni sera per scaldarsi. Non viene fatto alcun cenno all’organizzazione
che in realtà è necessaria per camminare così a lungo, si vede soltanto una
scena in cui compra del formaggio da una ragazza che vive in montagna. Da questo
punto di vista il film non offre spunti di alcun genere a noi popolo dei
camminatori che quando prepariamo lo zaino prima di una partenza siamo abituati
a pesare sulla bilancia elettronica anche i sacchetti di nylon in cui infilare tutti
i componenti della nostra sobria attrezzatura. Probabilmente, se non avesse rischiato la
morte o l’invalidità permanente, Pierre non si sarebbe lanciato in questa
impresa, preferendole esperienze sportive più eclatanti, brevi e “visibili” da
inserire nel suo carniere di cacciatore di successi. Ma ora, in seguito all’evento
che gli ha cambiato la vita e che lo ha umiliato nel profondo mettendolo
davanti alla sua sciocca vanità, Pierre ha bisogno di fare un passo indietro,
in completa solitudine e senza farsi sconti. Ha bisogno di fare questa dura esperienza
perchè deve rimettersi in carreggiata e soltanto abbassandosi al livello dei
suoi passi potrà recuperare il tasso di umiltà bastevole a proseguire un’esistenza
che non sia solamente ciò che resta della precedente ma al contrario una
distesa di giorni pieni di senso. </span><span style="font-size: 14pt;"><o:p></o:p></span></span></p>Erica Shttp://www.blogger.com/profile/02396576460609719108noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1619436081400323839.post-51935449505193776742023-11-09T16:48:00.000+01:002023-11-10T10:41:50.999+01:00<p><span style="color: #ffa400; font-family: arial;"><b>Anatomia di una caduta, Justine Triet (2023)</b></span></p><p><span style="color: #ffa400; font-family: arial;"></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="color: #ffa400; font-family: arial;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiX9yjxKYzAi-UN3MBqXF0A-WNKVBnAlAw8tT_0xyzn1z86_F0NhAikkmg1-sdYF4JBI7fj3CZS87MoaUO3b6dQReLb2YDDDXYn8YyoZF5GW7-VdvURwHFgdmMrPA96FGdFH4EepTt-8MTUg2D-hFqe4uXsYURkLFOyOTwWvwOnBw67Qo50SPN2MSuC/s768/anatomia.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="435" data-original-width="768" height="267" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiX9yjxKYzAi-UN3MBqXF0A-WNKVBnAlAw8tT_0xyzn1z86_F0NhAikkmg1-sdYF4JBI7fj3CZS87MoaUO3b6dQReLb2YDDDXYn8YyoZF5GW7-VdvURwHFgdmMrPA96FGdFH4EepTt-8MTUg2D-hFqe4uXsYURkLFOyOTwWvwOnBw67Qo50SPN2MSuC/w473-h267/anatomia.jpg" width="473" /></a></span></div><span style="color: #ffa400; font-family: arial;"><br /><b><br /></b></span><p></p><p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm;"><span style="line-height: 107%;"><span style="font-family: arial;">Qualche giorno fa ho visto “Anatomia di una caduta” di
Justine Triet, la regista francese a cui dobbiamo un precedente film del 2019 che
non riscosse molto successo (Sybil – Labirinti di donna), e che con quest’ultimo
si è invece portata a casa niente meno che la Palma d’Oro al Festival di
Cannes. Il sipario si apre sul bel volto
della scrittrice tedesca Sandra Voyter che sta rilasciando un'intervista ad una
giovane giornalista nello chalet sulle montagne vicine a Grenoble, dove vive
insieme al marito Samuel e al loro figlio undicenne Daniel, ipovedente da
quando ne aveva quattro in seguito a un incidente di cui è stato vittima per
una distrazione del padre. La conversazione fra Sandra e la giornalista è fortemente
disturbata dalla musica a tutto volume suonata da Samuel, scrittore in crisi che
in quel momento sta facendo dei lavori di ristrutturazione in casa con l’obiettivo
di mettere su un b&b. La musica diventa assordante al punto che l’intervista
deve concludersi prima del tempo. Qualche ora dopo l’uomo viene trovato morto
sul selciato innevato davanti allo chalet. Suicidio? Omicidio? La principale
sospettata è ovviamente Sandra che viene incriminata d’ufficio. Questo il prologo
da cui prende l’abbrivio il film che racconta come, durante l’anno successivo
all’incidente, si snocciolano le indagini, la difesa – affidata all'avvocato
Vincent, amico di lunga data della donna -, la narrazione degli antefatti, grazie
ai quali si ricostruisce la natura passionale ma anche fortemente conflittuale
del rapporto tra Sandra e Samuel, e il trauma che tutta la famiglia ha subito
in seguito all’incidente del piccolo Daniel. Mi fermo qui perché il film è un
thriller, un poliziesco, e tutto verte sull’indagine e sul processo che avrà
luogo un anno dopo.<o:p></o:p></span></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm;"><span style="line-height: 107%;"><span style="font-family: arial;">Trama a parte, che cosa mi ha affascinata di questo film
molto (troppo?) lungo e a tratti disturbante per l’eccesso di attenzione e vicinanza
a cui Justine Triet ci costringe, quasi fosse una anatomo patologa che ci
obbligasse a osservare da vicino i risultati della sua dissezione? Perché la
mia attenzione è stata rivolta quasi unicamente al progressivo disvelamento
degli strati in cui è strutturato il tessuto narrativo più che alla rivelazione
finale? Perché il video che viene proiettato in sede processuale, in cui Samuel
e Sandra si confrontano – le uniche scene in cui vediamo Samuel vivo –, mi è
sembrata una perla rara e non solo un passaggio determinante dell’indagine?
Sono giorni che ci penso e la risposta è che si tratta di un film che rasenta
la perfezione tecnica. Un film che andrebbe proiettato nelle scuole di cinema e
nei corsi di sceneggiatura, a partire proprio da quel dialogo miracolosamente
perfetto in cui moglie e marito duettano alternando comprensione e insofferenza
come solo i protagonisti dei rapporti di coppia autentici sono capaci di fare. “Anatomia
di una caduta”, titolo brillantemente appropriato che esprime la molteplicità
dei significati che il film sviscera e racchiude. Non posso che esortarvi ad
andare a vederlo, senza pensare alla sua durata ma godendovi il suono argentino
del meccanismo artistico quando funziona in modo esemplare. Completamente d’accordo
con la giuria di Cannes anche questa volta.</span><span style="font-size: 14pt;"><o:p></o:p></span></span></p>Erica Shttp://www.blogger.com/profile/02396576460609719108noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1619436081400323839.post-32038731283698400632023-11-09T16:41:00.003+01:002023-11-10T10:41:37.717+01:00<p><span style="color: #ffa400; font-size: medium;"><b><span style="background-color: white; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; white-space-collapse: preserve;">Jeanne du Barry, </span><span style="background-color: white; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; white-space-collapse: preserve;">Maïwenn (2023)</span></b></span></p><p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiTPl-cvxyhJi2htobavl8ey5wyHrK1nocWFORVXXp1L0PpphFCmVgLprJZT6tGn6zpX3lkrvs6bSA2jt_biykze-I1wPsTbKLU_CJ-IhLme1Gs5bhgTDEek5wWcg2J9-MPCoVFsB_G3xKodw0SRavzkvRS_xRJ3vTJ3SKKZbnR-w-d0dLCNe7_Xdmq/s774/jeanne.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="516" data-original-width="774" height="305" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiTPl-cvxyhJi2htobavl8ey5wyHrK1nocWFORVXXp1L0PpphFCmVgLprJZT6tGn6zpX3lkrvs6bSA2jt_biykze-I1wPsTbKLU_CJ-IhLme1Gs5bhgTDEek5wWcg2J9-MPCoVFsB_G3xKodw0SRavzkvRS_xRJ3vTJ3SKKZbnR-w-d0dLCNe7_Xdmq/w459-h305/jeanne.jpg" width="459" /></a></div><br /><span style="background-color: white; color: #050505; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; font-size: 15px; white-space-collapse: preserve;"><br /></span><p></p><p><span style="background-color: white; color: #050505; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; font-size: 15px; white-space-collapse: preserve;">“Jeanne du Barry” è uno di quei film che mentre lo guardo mi conquista con grande rapidità, sprofondo nella poltrona e mi faccio rapire senza opporre resistenza, godendomi le inquadrature perfette, i sontuosi costumi Chanel, la fotografia impeccabile, gli accostamenti cromatici raffinati e splendenti. Johnny Depp, reduce da una lunga assenza durante la quale è stato oltremodo chiacchierato, dà il meglio di sé interpretando un Luigi XV che sotto i nostri occhi passa dal </span><span style="background-color: white; color: #050505; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; font-size: 15px; white-space-collapse: preserve;"><a style="color: #385898; cursor: pointer; font-family: inherit;" tabindex="-1"></a></span><span style="background-color: white; color: #050505; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; font-size: 15px; white-space-collapse: preserve;">tormento per la perdita di Madame de Pompadour alla ritrovata joie de vie che l’affascinante Jeanne gli regala per pochi anni felici, gli ultimi. Maïwenn gira e interpreta un film che va giù come un bicchiere di champagne, esco dal cinema appagata e in cuor mio ringrazio il cielo che i tempi siano cambiati, che la necessità delle donne di difendere il loro posto nella società non dipenda più solo dalla bellezza e da un uomo, che le ghigliottine siano diventate oggetti da museo. Per qualche ora galleggio nel sospiro del grande amore che la Favorita ha saputo suscitare nel re, continuo a dolermi per la fine che li attende al varco, richiamo le scene più belle, mi domando per l’ennesima volta da dove le donne attingano la forza per tirarsi fuori dal pantano della povertà e dell’ignoranza. Poi lentamente le impressioni si attenuano, passano un paio di giorni e mi accorgo che il film che mi era tanto piaciuto è come un guscio luccicante al cui interno spira un venticello fresco e leggero, o poco di più.</span></p>Erica Shttp://www.blogger.com/profile/02396576460609719108noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1619436081400323839.post-72809833398614343692023-11-09T16:36:00.000+01:002023-11-10T10:41:28.066+01:00<p><span style="background-color: white; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; white-space-collapse: preserve;"><b><span style="color: #ffa400; font-size: medium;">Io capitano, Matteo Garrone (2023)</span></b></span></p><p><span style="background-color: white; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; white-space-collapse: preserve;"><b></b></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><b><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgej-tXVXQNIWDnFdLcAO9o4RU9sihWe2wYAGEfxESDyJDVpwCmWhhh6OGN8D7l31s5RLJkMyn3fKC6SI3SQE0aZVNuzOkFk_ycrgbYJXid36UTrrfkE2WTu6oFqG5uqDpksF62PlJC_W5czeZqBQpZ329rtdQeU3_5-6jO2fjoBBY8oMuih0JhdgL4/s640/io%20capitano.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="427" data-original-width="640" height="293" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgej-tXVXQNIWDnFdLcAO9o4RU9sihWe2wYAGEfxESDyJDVpwCmWhhh6OGN8D7l31s5RLJkMyn3fKC6SI3SQE0aZVNuzOkFk_ycrgbYJXid36UTrrfkE2WTu6oFqG5uqDpksF62PlJC_W5czeZqBQpZ329rtdQeU3_5-6jO2fjoBBY8oMuih0JhdgL4/w438-h293/io%20capitano.jpg" width="438" /></a></b></div><b><br /><span style="color: #ffa400; font-size: medium;"><br /></span></b><p></p><p><span style="background-color: white; color: #050505; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; font-size: 15px; white-space-collapse: preserve;">“Io capitano”, l'ultimo film di Matteo Garrone, ha il dono di coinvolgere lo spettatore in modo totalizzante dal momento in cui comincia – con la lunga sequenza in cui il giovane protagonista si sveglia in Senegal, nella sua casa sovraffollata e rumorosa, piena di sorelle che giocano e parlano a voce alta – fino alla scena finale, di cui non dirò nulla perché la fine non è affatto scontata e nel caso siate riusciti miracolosamente a non scoprirla nel frattempo, non voglio </span><span style="background-color: white; color: #050505; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; font-size: 15px; white-space-collapse: preserve;"><a style="color: #385898; cursor: pointer; font-family: inherit;" tabindex="-1"></a></span><span style="background-color: white; color: #050505; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; font-size: 15px; white-space-collapse: preserve;">certo essere io ad anticiparvela. Tra questi due poli, uno intriso di caotica tenerezza, l’altro di pura adrenalina, scorre una storia che è come un fiume, denso di contenuti concreti, di immagini crude che pesano come macigni, ma anche di immagini oniriche colorate e leggere che fanno rifiatare l’anima del ragazzo, e un po’ anche la nostra. Garrone, lo ricordiamo, ha girato film come “Dogman”, “Il racconto dei racconti”, “L’imbalsamatore”, “Pinocchio”, “Gomorra”, in cui la sua personalissima vena immaginifica e poetica era esaltata dalla crudezza di una narrazione vivida, potente, a tratti quasi iperrealistica. In “Io capitano” mi è sembrato di cogliere, oltre alla commistione di tutti gli elementi che continuano a caratterizzarne lo stile, un intento di denuncia più spiccato, più netto. Lo spettatore non viene più soltanto accompagnato alla scoperta di un mondo, ma viene profondamente coinvolto sul piano etico. Poesia e denuncia si alternano in una ballata che ci scuote fin nelle viscere, facendoci sentire sulla nostra pelle tutto quello che il ragazzo, che potrebbe essere nostro figlio, nostro fratello, ingiustamente patisce. Un film da vedere, da mostrare, da portare nelle scuole, nelle piazze, ovunque.</span></p>Erica Shttp://www.blogger.com/profile/02396576460609719108noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1619436081400323839.post-85573386391215733942023-11-09T16:31:00.003+01:002023-11-10T10:41:18.059+01:00<p><span style="background-color: white; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; white-space-collapse: preserve;"><span style="color: #ffa400; font-size: medium;"><b>L'ordine del tempo, Liliana Cavani (2023)</b></span></span></p><p><span style="background-color: white; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; white-space-collapse: preserve;"><span style="color: #ffa400; font-size: medium;"></span></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="color: #ffa400; font-size: medium;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgqglyRYYIXt8jdRS1cYW91Yu70bOVA7Ef-AZcBlzizmFtNNfiYQNWV5yLxE8VUJGpKgKmqd8Zq7lOABSWof_1a-CA-QHaxvzgoqeMD6cNXvMLWPDiAXQserqiRiWceBRDa24lAkEK8HgcLcZb7bBoUL-fqBKj4d-jqcuI6Quw7r_XWeZc3jz-b8w6F/s1280/cavani.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="720" data-original-width="1280" height="249" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgqglyRYYIXt8jdRS1cYW91Yu70bOVA7Ef-AZcBlzizmFtNNfiYQNWV5yLxE8VUJGpKgKmqd8Zq7lOABSWof_1a-CA-QHaxvzgoqeMD6cNXvMLWPDiAXQserqiRiWceBRDa24lAkEK8HgcLcZb7bBoUL-fqBKj4d-jqcuI6Quw7r_XWeZc3jz-b8w6F/w444-h249/cavani.jpg" width="444" /></a></span></div><span style="color: #ffa400; font-size: medium;"><br /><b><br /></b></span><p></p><p><span style="background-color: white; color: #050505; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; font-size: 15px; white-space-collapse: preserve;">"Cosa fareste se sapeste che il mondo sta per finire?”, chiede Liliana Cavani ai protagonisti del suo ultimo film “L’ordine del tempo”, tratto dall’omonimo saggio dello scienziato-scrittore Carlo Rovelli (qui anche sceneggiatore). Le risposte sono le più varie. Quando la prospettiva della fine diventa concreta e incrina l’atmosfera rilassata dei giorni di vacanza di un gruppo di vecchi amici, radunati in una villa sulle dune di Sabaudia per festeggiare il cinquantesimo </span><span style="color: #050505; font-family: inherit; font-size: 15px; white-space-collapse: preserve;"><a style="color: #385898; cursor: pointer; font-family: inherit;" tabindex="-1"></a></span><span style="background-color: white; color: #050505; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; font-size: 15px; white-space-collapse: preserve;">compleanno della padrona di casa, ciascuno di loro racconta al compagno/a, moglie/marito o all’amico/a il sogno che si è distrattamente lasciato sfuggire, l’obiettivo che non ha raggiunto, l’intento a cui non ha saputo dare corpo. Quel sogno, quel desiderio, quel bersaglio mancato, di fronte al timore della morte, ricompare e diventa una scheggia di rimpianto, la constatazione di una mancanza inspiegabile, di una rinuncia in fin dei conti inutile. Senza arrivare all’epilogo del racconto, che scoprirete da soli se andate a vedere il film, il focus a cui la Cavani ci inchioda come sulla croce è questo: perché capita frequentemente che ci si perda durante il viaggio? Perché ci succede così sovente di smarrire il bandolo della nostra personale matassa? Perché alla fine dei giorni ci tornano in mente proprio le promesse che ci siamo fatti da giovani e che non abbiamo mantenuto? Perché percepiamo oscuramente di esserci traditi? Perché questo tradimento ci addolora così tanto?</span></p><div dir="auto" style="background-color: white; color: #050505; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; font-size: 15px; white-space-collapse: preserve;">Il tempo - misterioso, inafferrabile, in perenne movimento – scorre ineluttabile ma ci illude di poter sempre tornare al punto di partenza per portare a termine quello che desideriamo, invece non è così. Il tempo, quantomeno per noi esseri umani, è una risorsa breve e drammaticamente finita, ma non riusciamo a capirlo altro che quando ci troviamo di fronte a una cesura, a un grave avvertimento, a un ribaltamento dell’ordine delle cose. In realtà, sembra dirci questo film - tutt’altro che pessimista, credetemi -, il nostro piccolo mondo umano è costantemente sul punto di finire, il tempo a nostra disposizione è di fatto destinato ad esaurirsi. Potrà succedere con gradualità oppure di colpo, starà a noi cercare di capire, almeno in parte, il senso del nostro passaggio. Fortunati coloro che avranno il privilegio della consapevolezza, potranno prepararsi un po’ per volta arrivando alla fine del gioco con gli occhi aperti.</div>Erica Shttp://www.blogger.com/profile/02396576460609719108noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1619436081400323839.post-5341097860673118512023-11-09T16:27:00.002+01:002023-11-10T10:41:08.752+01:00<p><span style="background-color: white; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; white-space-collapse: preserve;"><span style="color: #ffa400; font-size: medium;"><b>The Palace, Roman Polanski (2023)</b></span></span></p><p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgJNFLs69FWNLrz839b2wtWF1Qh3bwoEDwWSOFKWzvlUsJO_lg2CuYQtXUMCFqExkqOoJFrTRWKXpx1TipTdSnSArNjSqaI75dRGLTtTQQoIfLgUC0rdgJhS4eCvQDThvcYIusmhg1UlIUjl-hliYM3FarfDk7ZR-S8QZROeOKw9KOZLTpwKSqagrAI/s656/the%20palace.jpeg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="492" data-original-width="656" height="289" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgJNFLs69FWNLrz839b2wtWF1Qh3bwoEDwWSOFKWzvlUsJO_lg2CuYQtXUMCFqExkqOoJFrTRWKXpx1TipTdSnSArNjSqaI75dRGLTtTQQoIfLgUC0rdgJhS4eCvQDThvcYIusmhg1UlIUjl-hliYM3FarfDk7ZR-S8QZROeOKw9KOZLTpwKSqagrAI/w385-h289/the%20palace.jpeg" width="385" /></a></div><br /><span style="background-color: white; color: #050505; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; font-size: 15px; white-space-collapse: preserve;"><br /></span><p></p><p><span style="background-color: white; color: #050505; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; font-size: 15px; white-space-collapse: preserve;">“The Palace”, l’ultimo film di Roman Polanski mi ha divertita moltissimo, mi sono goduta ogni scena, ogni dialogo, ogni gag. Nonostante sia tutto molto prevedibile – intreccio, battute, situazioni – è come una ottima pietanza tradizionale a base di materie prime eccellenti molto ben cucinate, non spiazza, non sorprende, ma semplicemente appaga; non è poco. Due ore di rutilante spettacolo in cui attori consumati del calibro di Mickey Rourke, Sidney Rome e Fanny Ardant animano </span><span style="background-color: white; color: #050505; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; font-size: 15px; white-space-collapse: preserve;"><a style="color: #385898; cursor: pointer; font-family: inherit;" tabindex="-1"></a></span><span style="background-color: white; color: #050505; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; font-size: 15px; white-space-collapse: preserve;">una grottesca festa di capodanno dell’anno 2000, quello della paura del millennium bug, in un lussuosissimo hotel sulle Alpi svizzere dove convergono tutti gli stereotipi umani del mondo dei super ricchi e degli arricchiti. Ci sono milionari russi con seguito di modelle bellissime e perennemente brille, politici corrotti, bancari integerrimi che precipitano nel vizio, ex star cinematografiche ormai tumefatte dai troppi interventi estetici, chirurghi plastici con mogli malate di alzheimer, cani viziati che defecano sul letto, e perfino un pinguino che un ricco magnate regala alla moglie ventenne per il primo anniversario di matrimonio. A fare da contrappasso a questa pletora di vip dissennati e straripanti di denaro mal speso, vi è l’esercito di cameriere e concierge guidati dall’ineccepibile direttore d’albergo superbamente interpretato da Oliver Masucci. Il contrasto tra i due mondi che mettono in risalto le rispettive debolezze non è certo una novità, ma Polanski in questo film non vuole stupirci, vuole divertirsi, e soprattutto vuole farci divertire, alle spalle di quegli stessi ricchi che in altri film ha graffiato con ben più sottile crudeltà.</span></p>Erica Shttp://www.blogger.com/profile/02396576460609719108noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1619436081400323839.post-59173436740234962212023-11-09T16:23:00.004+01:002023-11-10T10:40:58.988+01:00<p><span style="background-color: white; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; white-space-collapse: preserve;"><span style="color: #ffa400; font-size: medium;"><b>Felicità, Michela Ramazzotti (2023)</b></span></span></p><p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjPz1wKK0JJRl5CFBof5cfHqtAQpvs_sIGFLrn_O-DSQNmiv0LfUk_WlvnX-8Q1tscZxe4mAgUqmRwrRrsQfP8tG6X6SWbZm6O4LlyuB2M3urk0zKg5RTYbrqs9KMm30F-YPVUjwTe1nqzx8eUrLZ4S7hVHHA60BfyskRWaQAOKnnTxUabLRtk9RNJV/s1600/felicit%C3%A0.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="900" data-original-width="1600" height="215" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjPz1wKK0JJRl5CFBof5cfHqtAQpvs_sIGFLrn_O-DSQNmiv0LfUk_WlvnX-8Q1tscZxe4mAgUqmRwrRrsQfP8tG6X6SWbZm6O4LlyuB2M3urk0zKg5RTYbrqs9KMm30F-YPVUjwTe1nqzx8eUrLZ4S7hVHHA60BfyskRWaQAOKnnTxUabLRtk9RNJV/w382-h215/felicit%C3%A0.jpg" width="382" /></a></div><span style="background-color: white; color: #050505; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; font-size: 15px; white-space-collapse: preserve;"><p><span style="background-color: white; color: #050505; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; font-size: 15px; white-space-collapse: preserve;"><br /></span></p>Felicità”, opera prima di Micaela Ramazzotti nelle vesti di regista è un film imperfetto ma, è il caso di dirlo, felice. Nonostante personaggi che a tratti rischiano di sconfinare nel macchiettistico, soluzioni drammaturgiche un po’ tirate via, caratteri che non vengono sempre fuori come dovrebbero, la storia c’è, il ritmo anche, gli attori funzionano e la fotografia di Luca Bigazzi è come sempre intensa. La storia è di quelle che lo spettatore trangugia golosamente: due </span><span style="background-color: white; color: #050505; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; font-size: 15px; white-space-collapse: preserve;"><a style="color: #385898; cursor: pointer; font-family: inherit;" tabindex="-1"></a></span><span style="background-color: white; color: #050505; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; font-size: 15px; white-space-collapse: preserve;">fratelli adulti - Desiré e Claudio – che provengono da una famiglia disfunzionale in cui i genitori, egoisti e superficiali, li hanno costantemente manipolati senza troppi rimorsi, alle prese con le difficoltà della vita. Lunghi anni trascorsi in una cuccia tossica di dolore, equivoci, pressioni, indifferenza, amore distorto, sensi di colpa, hanno minato nel profondo la capacità di Desiré e Claudio di crescere bene, di vivere bene, di diventare persone equilibrate, di lavorare, di avere relazioni affettive paritarie. Intossicati da qualcosa a cui non sanno neppure dare un nome –disfunzionalità -, i protagonisti hanno imparato soltanto a rimanere a galla. Desiré per un gesto d’amore si fa andare bene tutto, si accontenta delle briciole, chiude gli occhi davanti all’egoismo senza rimedio di coloro che invece di darle ciò che merita, senza chiedere nulla in cambio, le riservano disattenzione e indifferenza ogni volta che cerca di affermare se stessa; Claudio, più fragile, resta intontito dagli urti della vita, stritolato tra il desiderio di compiacere il padre e il non sapere cosa realmente vuole per sé. Desiré, più tosta e vitale, in qualche modo è riuscita ad allontanarsi dalla famiglia e combatte ogni giorno una battaglia disordinata ma efficace per farsi spazio nel mondo. Claudio, una volta rimasto solo, scivola lentamente nell’abisso della depressione divorato dalle manipolazioni dei genitori, alcune a fin di bene, dettate da un miscuglio di ignoranza, pregiudizi e superficialità. Il film, in realtà, comincia qui e racconta come l’amore che unisce i due fratelli – sincero, autentico e intoccato – riesca in qualche modo a salvarli. Perché la felicità, come l’amore, non è mai frutto di un baratto, non scaturisce dall’assecondare le aspettative e i desideri di genitori o compagni. La felicità è una scelta e riguarda il rispetto che abbiamo verso noi stessi, il raggiungimento dell’obiettivo che ci siamo prefissi, la serena condivisione di sentimenti maturi e sinceri. Michaela Ramazzotti interpreta Desiré con appassionato trasporto e cerca in tutti i modi di trasmettere anche agli altri personaggi la medesima urgenza, lo stesso fuoco. Non ci riesce in pieno, ma il film è potente lo stesso e arriva dritto al cuore.</span> <p></p>Erica Shttp://www.blogger.com/profile/02396576460609719108noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1619436081400323839.post-64565405609482954222023-11-09T16:19:00.001+01:002023-11-10T10:40:47.220+01:00<p><span style="font-family: inherit; white-space-collapse: preserve;"><span style="color: #ffa400; font-size: medium;"><b>Dogman, Luc Besson (2023)</b></span></span></p><p><span style="font-family: inherit; white-space-collapse: preserve;"></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjU7rozDJDCjWg9Xj4auVz_IxKO-fSKieKRz_JulZ2lQA1mAtjRvr393k345u6YYEy62iaxWzKaqDt7QgpOzZN9SPCp4QTsHEagRCkpWi904mYXyJtVZPTPKifD8i7iQr_H3i6ppt1dRDIJ4I7uN1rZN18GgSFaCLwHKNOAso1vhKCWem1Ujbr9cjXB/s735/dogman.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="416" data-original-width="735" height="217" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjU7rozDJDCjWg9Xj4auVz_IxKO-fSKieKRz_JulZ2lQA1mAtjRvr393k345u6YYEy62iaxWzKaqDt7QgpOzZN9SPCp4QTsHEagRCkpWi904mYXyJtVZPTPKifD8i7iQr_H3i6ppt1dRDIJ4I7uN1rZN18GgSFaCLwHKNOAso1vhKCWem1Ujbr9cjXB/w384-h217/dogman.jpg" width="384" /></a></div><span style="color: #ffa400; font-size: medium;"><br /><b><br /></b></span><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span style="font-family: arial;"><span style="color: var(--primary-text); font-size: 0.9375rem; text-align: left; white-space-collapse: preserve;">Una settimana fa ho visto “Dogman”, il nuovo film di Luc Besson, volevo scrivere qualcosa a caldo, ma non sono riuscita a farlo. Nei giorni seguenti ho pensato spesso al motivo per cui non riuscivo a tornare con calma sul film,</span><span style="color: var(--primary-text); font-size: 0.9375rem; text-align: left; white-space-collapse: preserve;">che pure mi era piaciuto nonostante i clamorosi difetti che più o meno tutti hanno rilevato. Non ho trovato spiegazioni soddisfacenti, posso solo dire che ho dovuto aspettare che l’emozione si stemperasse. Il film si apre con una citazione famosa per </span><span style="color: var(--primary-text); font-size: 0.9375rem; text-align: left; white-space-collapse: preserve;"><a style="color: #385898; cursor: pointer;" tabindex="-1"></a></span><span style="color: var(--primary-text); font-size: 0.9375rem; text-align: left; white-space-collapse: preserve;">tutti quelli che come me vivono con un cane: “Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane”, del poeta e scrittore francese Alphonse de Lamartin. Non aggiungo altro. Il film, che – lo ripeto – ha un sacco di difetti, è come una gigantesca onda di amore per questi esseri che rendono la nostra vita molto più bella e accettabile di quanto possiamo mai meritare. Doug, il protagonista interpretato da Caleb Landry Jones (attore pazzesco che spero ci farà sognare a lungo), deve a loro non solo la sua sopravvivenza, che già basterebbe, ma soprattutto la sua infinita capacità di empatia, di dolcezza, di ingenuità. Un personaggio che da una parte sembra tenere per mano Hannibal de “Il silenzio degli innocenti”, con tutto il suo carico di irresistibile e orribile fascino, e dall’altra il bambino del secondo straziante episodio di “The Hours”, film di Stephen Daldry (Billy Eliot, The Reader etc) del lontano 2005. Un personaggio che mi è rimasto nel cuore, di quelli che vorrei esistesse davvero per andare a conoscerlo, per avere la sua attenzione almeno per un momento. Perdono a Luc Besson tutte le imperfezioni perché capisco che deve essersi trovato come se avesse scoperchiato il vaso di Pandora. Se amate i cani andate a vederlo e siate indulgenti, è un film d’amore e in amore si sbaglia quasi sempre.</span></span></div><p></p><div><div class="x168nmei x13lgxp2 x30kzoy x9jhf4c x6ikm8r x10wlt62" data-visualcompletion="ignore-dynamic" style="border-radius: 0px 0px 8px 8px; overflow: hidden;"><div><div><div><div class="x1n2onr6" style="position: relative;"><div class="x6s0dn4 xi81zsa x78zum5 x6prxxf x13a6bvl xvq8zen xdj266r xktsk01 xat24cr x1d52u69 x889kno x4uap5 x1a8lsjc xkhd6sd xdppsyt" style="align-items: center; border-bottom: 1px solid var(--divider); color: var(--secondary-text); display: flex; font-size: 0.9375rem; justify-content: flex-end; line-height: 1.3333; margin: 0px 16px; padding: 10px 0px;"><div class="x6s0dn4 x78zum5 x1iyjqo2 x6ikm8r x10wlt62" style="align-items: center; background-color: white; color: #65676b; display: flex; flex-grow: 1; overflow: hidden;"><div class=""><span class="x4k7w5x x1h91t0o x1h9r5lt x1jfb8zj xv2umb2 x1beo9mf xaigb6o x12ejxvf x3igimt xarpa2k xedcshv x1lytzrv x1t2pt76 x7ja8zs x1qrby5j" style="align-items: inherit; align-self: inherit; display: inherit; flex-direction: inherit; flex: inherit; height: inherit; max-height: inherit; max-width: inherit; min-height: inherit; min-width: inherit; place-content: inherit; width: inherit;"><div class="x1i10hfl xjbqb8w x6umtig x1b1mbwd xaqea5y xav7gou x9f619 x1ypdohk xe8uvvx xdj266r x11i5rnm xat24cr x1mh8g0r xexx8yu x4uap5 x18d9i69 xkhd6sd x16tdsg8 x1hl2dhg xggy1nq x1o1ewxj x3x9cwd x1e5q0jg x13rtm0m x1n2onr6 x87ps6o x1lku1pv x1a2a7pz x1heor9g xnl1qt8 x6ikm8r x10wlt62 x1vjfegm x1lliihq" role="button" style="-webkit-tap-highlight-color: transparent; background-color: transparent; border-color: initial; border-radius: inherit; border-style: initial; border-width: 0px; box-sizing: border-box; color: inherit; cursor: pointer; list-style: none; margin: 0px; max-height: 1.3333em; outline: none; overflow: hidden; padding: 0px; position: relative; text-align: inherit; touch-action: manipulation; user-select: none; z-index: 1;" tabindex="0"><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: inherit;"><span class="x1e558r4" style="font-family: inherit; padding-left: 4px;"><br /></span></span></div></div></span></div></div><div class="x9f619 x1n2onr6 x1ja2u2z x78zum5 x2lah0s x1qughib x1qjc9v5 xozqiw3 x1q0g3np xykv574 xbmpl8g x4cne27 xifccgj" style="align-items: stretch; background-color: white; box-sizing: border-box; color: #65676b; display: flex; flex-flow: row; flex-shrink: 0; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; justify-content: space-between; margin: -6px; position: relative; z-index: 0;"></div></div></div></div></div></div></div></div>Erica Shttp://www.blogger.com/profile/02396576460609719108noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1619436081400323839.post-58359599488868796412023-11-09T16:12:00.000+01:002023-11-10T10:40:37.420+01:00<p><span style="background-color: white; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; white-space-collapse: preserve;"><span style="color: #ffa400; font-size: medium;"><b>C'è ancora domani, Paola Cortellesi (2023)</b></span></span></p><p><span style="background-color: white; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; white-space-collapse: preserve;"><span style="color: #ffa400; font-size: medium;"><b><br /></b></span></span></p><p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgdThZvoa0rWTcz79MHl-g8268i0yWPwZBGJZWp-k9-cYWLAGio8If-PIlsp4yXWr3FrhhvNh28wgkkb8s6qV_IkwraNVv8IyLyFOKX5InwVd0KJU1O63Fhfoq6_Sx1HBlMoxFR5c-pf6ojIsq96lzsg19lbnKrO7t5MYExWIWxt6yge9lZY3sQXGOr/s755/Paola-Cortellesi-Valerio-Mastandrea-Gianmarco-Filippini-e-Romana-Maggiora-Vergano-@CLAUDIOIANNONE_HD-Cad-104-755x491.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="491" data-original-width="755" height="231" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgdThZvoa0rWTcz79MHl-g8268i0yWPwZBGJZWp-k9-cYWLAGio8If-PIlsp4yXWr3FrhhvNh28wgkkb8s6qV_IkwraNVv8IyLyFOKX5InwVd0KJU1O63Fhfoq6_Sx1HBlMoxFR5c-pf6ojIsq96lzsg19lbnKrO7t5MYExWIWxt6yge9lZY3sQXGOr/w355-h231/Paola-Cortellesi-Valerio-Mastandrea-Gianmarco-Filippini-e-Romana-Maggiora-Vergano-@CLAUDIOIANNONE_HD-Cad-104-755x491.jpg" width="355" /></a></div><span style="background-color: white; color: #050505; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; font-size: 15px; white-space-collapse: preserve;"><p><span style="background-color: white; color: #050505; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; font-size: 15px; white-space-collapse: preserve;"><br /></span></p>Sono finalmente andata a vedere “C’è ancora domani” di e con Paola Cortellesi. Era già stato detto tutto di questo film e per quanto mi fossi astenuta dal leggere commenti e recensioni e avessi cercato in ogni modo di evitare di guardare e leggere le numerose interviste mandate in onda e pubblicate, sono entrata nella sala cinematografica con la sensazione di avere già visto il film prima ancora che le luci si abbassassero. Fortunatamente mi sbagliavo. Per quanto il trailer </span><span style="background-color: white; color: #050505; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; font-size: 15px; white-space-collapse: preserve;"><a style="color: #385898; cursor: pointer; font-family: inherit;" tabindex="-1"></a></span><span style="background-color: white; color: #050505; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; font-size: 15px; white-space-collapse: preserve;">avesse fatto in tempo a scavare uno storico che ormai aveva vita propria nella mia testa, il film – bello, commovente, intelligente – è uscito fuori dallo schermo e si è posato sulle file affollate di noi spettatori come una grande e luminosa coperta fatata. E così, da quel pugnello di immagini viste e riviste e dalle frasi involontariamente orecchiate al bar, sulla metro, in ufficio, è balzata sullo schermo tutta la verità dell’omaggio a Delia. Un omaggio a tutte le donne che hanno fatto una vita amara, faticosa, che come lei hanno cresciuto figli, sopportato padri e mariti, sognato antichi amori, sperato vite diverse, senza contare mai nulla nella società. Delia, con la sua magrezza, i suoi zigomi, gli occhi vivi, morbidi e belli, sempre pronta al sorriso, all’ironia, le incarna tutte, le rappresenta, le racconta. Delia che accetta senza lamentarsi la sua condizione, senza mai perdere la grazia, con dignità, sapendo sempre da che parte stare, con la schiena dritta e lo sguardo fermo. Delia che risponde a tono anche se poi la paga cara ma non è una ribelle, semplicemente vuole dire la sua perché sente di averne il diritto. Delia che aderisce con naturalezza al suo ruolo ma non abbassa gli occhi, non tradisce se stessa, preferisce un occhio nero alla vergogna di non riuscire a guardarsi allo specchio. Delia che ingoia l’amarezza e scrolla le spalle, serbando gesti di gentilezza nonostante tutto. Che deciderà di fare un passo in più solo quando si renderà conto che è necessario per il bene della figlia, perché non tollera l’idea di passare su questa terra senza lasciarle un’eredità preziosa anche se intangibile. Il cammino sarà lungo – lo è ancora – ma quello che conta è fare il primo passo. E Delia lo fa, con l’incrollabile fiducia nella vita che la caratterizza e che ce la fa tanto amare.</span><p></p>Erica Shttp://www.blogger.com/profile/02396576460609719108noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1619436081400323839.post-28314062975570398132023-05-30T10:59:00.001+02:002023-11-10T11:05:15.663+01:00<p><span style="color: #ffa400; font-family: arial; font-size: medium;"><span style="white-space-collapse: preserve;"><b>Rapito, Marco Bellocchio (2023)</b></span></span></p><p><span style="font-family: arial;"></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: arial;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgwNu7g962FxK6p3LkNSofD-Rz-CfgVWGmGjamnCl_FSydHwNORlY508-4GXUzgUDjN1x2KdcqItP_gueLJ8BpYySVZfmPZOGE1-kWo_wSOMfjIMJO17bqCsBKcykpSHmCyok8FmDMRcD2lkgwtIdrb9KF6xgjH58zAKma99VeChnSDjDnnOPpifyzz/s822/Rapito-di-Marco-Bellocchio-822x525.png" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="525" data-original-width="822" height="301" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgwNu7g962FxK6p3LkNSofD-Rz-CfgVWGmGjamnCl_FSydHwNORlY508-4GXUzgUDjN1x2KdcqItP_gueLJ8BpYySVZfmPZOGE1-kWo_wSOMfjIMJO17bqCsBKcykpSHmCyok8FmDMRcD2lkgwtIdrb9KF6xgjH58zAKma99VeChnSDjDnnOPpifyzz/w472-h301/Rapito-di-Marco-Bellocchio-822x525.png" width="472" /></a></span></div><span style="font-family: arial;"><br /><span style="color: var(--primary-text); white-space-collapse: preserve;"><br /></span></span><p></p><p><span style="font-family: arial;"><span style="color: var(--primary-text); white-space-collapse: preserve;">Ho visto “Rapito”, il film di Marco Bellocchio, sul caso Edgardo Mortara e dico subito che si tratta di uno splendido film, di quelli che quando arriva la fine vorresti poterlo rivedere da capo. E’ la storia di un bambino ebreo che vive con la sua famiglia a Bologna, circondato dall’affetto dei genitori e dei fratelli, e che nel 1858, all’età di sette anni, viene prelevato dallo Stato Pontificio e portato a Roma per essere cresciuto come cattolico per il semplice fatto di </span><span style="color: var(--primary-text); white-space-collapse: preserve;"><a style="color: #385898; cursor: pointer;" tabindex="-1"></a></span><span style="color: var(--primary-text); white-space-collapse: preserve;">essere stato segretamente battezzato da una servetta che lo aveva ritenuto in fin di vita quando era neonato e di nascosto da tutti gli aveva somministrato il sacramento per evitargli il rischio di finire nel limbo qualora fosse morto.</span></span></p><p><span style="color: var(--primary-text); white-space-collapse: preserve;"><span style="font-family: arial;">Secondo le regole della legge papale, il battesimo, ancorché effettuato alla bell’e meglio con acqua comune e la frase di rito appena smozzicata dalla ragazza, una volta scoperto, impone al bambino un’educazione cattolica che deve essere impartita allontanandolo dalla famiglia di origine. Infatti, le leggi dello Stato Pontificio vietavano a persone di altre fedi di crescere i cristiani. Così, il piccolo Mortara viene “rapito” e trasferito da Bologna a Roma, dove viene allevato secondo i precetti cristiani sotto la custodia di Papa Pio IX. Naturalmente i genitori e l’intera comunità ebraica cercano di opporsi con ogni mezzo, ma tutti gli sforzi sono vani. Edgardo vivrà lontano dalla sua famiglia, dimenticando la sua religione e assorbendo i dettami del cattolicesimo. Detto così sarebbe violenza pura, e naturalmente in larga parte lo è. Ma quello che rende il film un capolavoro dove sensibilità e immaginazione si fondono con l’accuratezza della ricostruzione storica è l’aver saputo delineare tutte le sfumature dei sentimenti che tempestano dall’inizio alla fine gli animi dei protagonisti: paura, disperazione, rabbia, speranza, dolore, rassegnazione, riconoscenza, fiducia, desolazione. Nel turbinio disastroso di sopraffazione, crudeltà e dolore, il film non rinuncia a raccontare anche di rare dolcezze, di minuscole complicità, di impercettibili momenti di pace, di rivelazioni che nonostante tutto si fanno strada tra le pieghe salate delle lacrime. Edgardo resiste all’urto dell’infelicità e della solitudine, cresce, diventa un fervido credente e all'età di ventitré anni viene ordinato sacerdote cattolico con il nome di Pio. Nel 1895 tenta inutilmente di convertire l’amata madre sul letto di morte e viene cacciato dalla famiglia inorridita da tanto ardire. Resta nel cuore l’ultima scena quando, a pochi metri dalla mamma ormai spenta, Edgardo si accarezza la guancia, proprio come aveva fatto lei la notte prima che lo portassero via. In quella carezza che il giovane prete evoca e si restituisce c’è tutto l’amore che gli è stato inutilmente strappato nel nome di una regola disumana a cui, forse, la fede che incredibilmente lo ha toccato restituisce senso.</span></span></p><div style="font-family: inherit;"><div class="x168nmei x13lgxp2 x30kzoy x9jhf4c x6ikm8r x10wlt62" data-visualcompletion="ignore-dynamic" style="border-radius: 0px 0px 8px 8px; font-family: inherit; overflow: hidden;"><div style="font-family: inherit;"><div style="font-family: inherit;"><div style="font-family: inherit;"><div class="x1n2onr6" style="font-family: inherit; position: relative;"><div class="x6s0dn4 xi81zsa x78zum5 x6prxxf x13a6bvl xvq8zen xdj266r xktsk01 xat24cr x1d52u69 x889kno x4uap5 x1a8lsjc xkhd6sd xdppsyt" style="align-items: center; border-bottom: 1px solid var(--divider); color: var(--secondary-text); display: flex; font-family: inherit; font-size: 0.9375rem; justify-content: flex-end; line-height: 1.3333; margin: 0px 16px; padding: 10px 0px;"><div class="x6s0dn4 x78zum5 x1iyjqo2 x6ikm8r x10wlt62" style="align-items: center; background-color: white; color: #65676b; display: flex; flex-grow: 1; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; overflow: hidden;"><span aria-label="Scopri chi ha aggiunto una reazione" class="x1ja2u2z" role="toolbar" style="font-family: inherit; z-index: 0;"><span class="x6s0dn4 x78zum5 x1e558r4" id=":r78u:" style="align-items: center; display: flex; font-family: inherit; padding-left: 4px;"><span class="x6zyg47 x1xm1mqw xpn8fn3 xtct9fg x13zp6kq x1mcfq15 xrosliz x1wb7cse x13fuv20 xu3j5b3 x1q0q8m5 x26u7qi xamhcws xol2nv xlxy82 x19p7ews xmix8c7 x139jcc6 x1n2onr6 x1xp8n7a xhtitgo" style="border-bottom-color: var(--card-background); border-left-color: var(--card-background); border-radius: 11px; border-right-color: var(--card-background); border-style: solid; border-top-color: var(--card-background); border-width: 2px; font-family: inherit; height: 18px; margin-left: -4px; position: relative; width: 18px; z-index: 2;"><span class="x12myldv x1udsgas xrc8dwe xxxhv2y x1rg5ohu xmix8c7 x1xp8n7a" style="border-radius: 9px; display: inline-block; font-family: inherit; height: 18px; width: 18px;"><span class="x4k7w5x x1h91t0o x1h9r5lt x1jfb8zj xv2umb2 x1beo9mf xaigb6o x12ejxvf x3igimt xarpa2k xedcshv x1lytzrv x1t2pt76 x7ja8zs x1qrby5j" style="align-items: inherit; align-self: inherit; display: inherit; flex-direction: inherit; flex: inherit; font-family: inherit; height: inherit; max-height: inherit; max-width: inherit; min-height: inherit; min-width: inherit; place-content: inherit; width: inherit;"><div aria-label="Mi piace: 19 persone" class="x1i10hfl x1qjc9v5 xjbqb8w xjqpnuy xa49m3k xqeqjp1 x2hbi6w x13fuv20 xu3j5b3 x1q0q8m5 x26u7qi x972fbf xcfux6l x1qhh985 xm0m39n x9f619 x1ypdohk xdl72j9 x2lah0s xe8uvvx xdj266r x11i5rnm xat24cr x1mh8g0r x2lwn1j xeuugli xexx8yu x4uap5 x18d9i69 xkhd6sd x1n2onr6 x16tdsg8 x1hl2dhg xggy1nq x1ja2u2z x1t137rt x1o1ewxj x3x9cwd x1e5q0jg x13rtm0m x3nfvp2 x1q0g3np x87ps6o x1lku1pv x1a2a7pz" role="button" style="-webkit-tap-highlight-color: transparent; align-items: stretch; background-color: transparent; border-bottom-color: var(--always-dark-overlay); border-left-color: var(--always-dark-overlay); border-radius: inherit; border-right-color: var(--always-dark-overlay); border-style: solid; border-top-color: var(--always-dark-overlay); border-width: 0px; box-sizing: border-box; cursor: pointer; display: inline-flex; flex-basis: auto; flex-direction: row; flex-shrink: 0; font-family: inherit; list-style: none; margin: 0px; min-height: 0px; min-width: 0px; outline: none; padding: 0px; position: relative; text-align: inherit; touch-action: manipulation; user-select: none; z-index: 0;" tabindex="0"><img class="x16dsc37" height="18" role="presentation" src="data:image/svg+xml,%3Csvg fill='none' xmlns='http://www.w3.org/2000/svg' viewBox='0 0 16 16'%3E%3Cpath d='M16.0001 7.9996c0 4.418-3.5815 7.9996-7.9995 7.9996S.001 12.4176.001 7.9996 3.5825 0 8.0006 0C12.4186 0 16 3.5815 16 7.9996Z' fill='url(%23paint0_linear_15251_63610)'/%3E%3Cpath d='M16.0001 7.9996c0 4.418-3.5815 7.9996-7.9995 7.9996S.001 12.4176.001 7.9996 3.5825 0 8.0006 0C12.4186 0 16 3.5815 16 7.9996Z' fill='url(%23paint1_radial_15251_63610)'/%3E%3Cpath d='M16.0001 7.9996c0 4.418-3.5815 7.9996-7.9995 7.9996S.001 12.4176.001 7.9996 3.5825 0 8.0006 0C12.4186 0 16 3.5815 16 7.9996Z' fill='url(%23paint2_radial_15251_63610)' fill-opacity='.5'/%3E%3Cpath d='M7.3014 3.8662a.6974.6974 0 0 1 .6974-.6977c.6742 0 1.2207.5465 1.2207 1.2206v1.7464a.101.101 0 0 0 .101.101h1.7953c.992 0 1.7232.9273 1.4917 1.892l-.4572 1.9047a2.301 2.301 0 0 1-2.2374 1.764H6.9185a.5752.5752 0 0 1-.5752-.5752V7.7384c0-.4168.097-.8278.2834-1.2005l.2856-.5712a3.6878 3.6878 0 0 0 .3893-1.6509l-.0002-.4496ZM4.367 7a.767.767 0 0 0-.7669.767v3.2598a.767.767 0 0 0 .767.767h.767a.3835.3835 0 0 0 .3835-.3835V7.3835A.3835.3835 0 0 0 5.134 7h-.767Z' fill='%23fff'/%3E%3Cdefs%3E%3CradialGradient id='paint1_radial_15251_63610' cx='0' cy='0' r='1' gradientUnits='userSpaceOnUse' gradientTransform='rotate(90 .0005 8) scale(7.99958)'%3E%3Cstop offset='.5618' stop-color='%230866FF' stop-opacity='0'/%3E%3Cstop offset='1' stop-color='%230866FF' stop-opacity='.1'/%3E%3C/radialGradient%3E%3CradialGradient id='paint2_radial_15251_63610' cx='0' cy='0' r='1' gradientUnits='userSpaceOnUse' gradientTransform='rotate(45 -4.5257 10.9237) scale(10.1818)'%3E%3Cstop offset='.3143' stop-color='%2302ADFC'/%3E%3Cstop offset='1' stop-color='%2302ADFC' stop-opacity='0'/%3E%3C/radialGradient%3E%3ClinearGradient id='paint0_linear_15251_63610' x1='2.3989' y1='2.3999' x2='13.5983' y2='13.5993' gradientUnits='userSpaceOnUse'%3E%3Cstop stop-color='%2302ADFC'/%3E%3Cstop offset='.5' stop-color='%230866FF'/%3E%3Cstop offset='1' stop-color='%232B7EFF'/%3E%3C/linearGradient%3E%3C/defs%3E%3C/svg%3E" style="border: 0px; vertical-align: top;" width="18" /></div></span></span></span></span></span><div class="" style="font-family: inherit;"><span class="x4k7w5x x1h91t0o x1h9r5lt x1jfb8zj xv2umb2 x1beo9mf xaigb6o x12ejxvf x3igimt xarpa2k xedcshv x1lytzrv x1t2pt76 x7ja8zs x1qrby5j" style="align-items: inherit; align-self: inherit; display: inherit; flex-direction: inherit; flex: inherit; font-family: inherit; height: inherit; max-height: inherit; max-width: inherit; min-height: inherit; min-width: inherit; place-content: inherit; width: inherit;"><div class="x1i10hfl xjbqb8w x6umtig x1b1mbwd xaqea5y xav7gou x9f619 x1ypdohk xe8uvvx xdj266r x11i5rnm xat24cr x1mh8g0r xexx8yu x4uap5 x18d9i69 xkhd6sd x16tdsg8 x1hl2dhg xggy1nq x1o1ewxj x3x9cwd x1e5q0jg x13rtm0m x1n2onr6 x87ps6o x1lku1pv x1a2a7pz x1heor9g xnl1qt8 x6ikm8r x10wlt62 x1vjfegm x1lliihq" role="button" style="-webkit-tap-highlight-color: transparent; background-color: transparent; border-color: initial; border-radius: inherit; border-style: initial; border-width: 0px; box-sizing: border-box; color: inherit; cursor: pointer; font-family: inherit; list-style: none; margin: 0px; max-height: 1.3333em; outline: none; overflow: hidden; padding: 0px; position: relative; text-align: inherit; touch-action: manipulation; user-select: none; z-index: 1;" tabindex="0"><div class="x9f619 x1ja2u2z xzpqnlu x1hyvwdk xjm9jq1 x6ikm8r x10wlt62 x10l6tqk x1i1rx1s" style="box-sizing: border-box; clip-path: inset(50%); clip: rect(0px, 0px, 0px, 0px); font-family: inherit; height: 1px; overflow: hidden; position: absolute; width: 1px; z-index: 0;">Tutte le reazioni:</div><span aria-hidden="true" class="xrbpyxo x6ikm8r x10wlt62 xlyipyv x1exxlbk" style="float: left; font-family: inherit; overflow: hidden; text-overflow: ellipsis; width: 100px;"><span style="font-family: inherit;"><span class="xt0b8zv x1e558r4" style="font-family: inherit; padding-left: 4px;">19</span></span></span><span class="xt0b8zv x2bj2ny xrbpyxo xl423tq" style="background-color: var(--surface-background); float: left; font-family: inherit; margin-left: -100px;"><span style="font-family: inherit;"><span class="x1e558r4" style="font-family: inherit; padding-left: 4px;">Aurora Acconcia, Maristella Lippolis e altri 17</span></span></span><div><span style="font-family: inherit;"><span class="x1e558r4" style="font-family: inherit; padding-left: 4px;"><br /></span></span></div></div></span></div></div><div class="x9f619 x1n2onr6 x1ja2u2z x78zum5 x2lah0s x1qughib x1qjc9v5 xozqiw3 x1q0g3np xykv574 xbmpl8g x4cne27 xifccgj" style="align-items: stretch; background-color: white; box-sizing: border-box; color: #65676b; display: flex; flex-flow: row; flex-shrink: 0; font-family: "Segoe UI Historic", "Segoe UI", Helvetica, Arial, sans-serif; justify-content: space-between; margin: -6px; position: relative; z-index: 0;"></div></div></div></div></div></div></div></div>Erica Shttp://www.blogger.com/profile/02396576460609719108noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1619436081400323839.post-11516000043415322432018-04-04T09:55:00.002+02:002018-04-06T17:43:11.215+02:00Tonya, Craig Gillespie (2017)<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgaZ5q0OqP64orUdoU_X2areR8fKdC2hVVv9noI4Ae2dAHXWIYgi2J6rdPvQK-dp5eIEkQ0to9rhZ8eRiXhEh2YeYZwjlnPJ_iS1KY0fu_py1hXCYzdDT3QQ3smlsjDFnBSiDzM30ch/s1600/tonya.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="360" data-original-width="640" height="225" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgaZ5q0OqP64orUdoU_X2areR8fKdC2hVVv9noI4Ae2dAHXWIYgi2J6rdPvQK-dp5eIEkQ0to9rhZ8eRiXhEh2YeYZwjlnPJ_iS1KY0fu_py1hXCYzdDT3QQ3smlsjDFnBSiDzM30ch/s400/tonya.jpg" width="400" /></a></div>
<br />
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 0pt;">
<span style="font-family: "calibri";">“Tonya” è un
biopic, ovvero appartiene a quel genere cinematografico basato sulla
ricostruzione della biografia di un personaggio realmente esistito. Il film racconta
la vita della pattinatrice su ghiaccio Tonya Harding (Margot Robbie), che nel
1994 fu al centro di uno dei più grossi scandali sportivi degli Stati Uniti
d'America. Tonya, che era stata la prima atleta americana ad eccellere nei campionati
nazionali e soprattutto era stata la prima a compiere il triplo axel, viene
improvvisamente accusata di aver stroncato la carriere dalla sua amica e rivale
Nancy Kerrigan facendole spaccare un ginocchio con una martellata da un balordo
assoldato dal marito. La carriera di Tonya, che pure si rivela coinvolta
indirettamente (il mandante era stato il marito), si interrompe immediatamente
e la giovanissima ragazza viene definitivamente espulsa dal mondo del
pattinaggio che già non faceva mistero di sopportarla a stento. <o:p></o:p></span></div>
<br />
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 0pt;">
<span style="font-family: "calibri";">Il film
approfondisce la storia di Tonya attraverso un mix sapiente di finte interviste
girate ai tempi nostri, in cui i protagonisti raccontano alcune parti della
vicenda, con<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>il flusso del racconto che
mostra a più riprese lo srotolarsi degli eventi. Ne emerge il ritratto
sfaccettato e complesso di una ragazza piena di talento, simpatica, ribelle,
vitale fino all’inverosimile che ha semplicemente avuto la sfortuna di nascere
nella famiglia sbagliata. Sofferente d’asma e forte fumatrice, poco amata dai
giudici di gara che non la ritengono all’altezza di rappresentare gli Stati
Uniti né di incarnare un modello sportivo degno di <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>essere proposto al pubblico a causa della
bassa estrazione sociale e della scarsa umiltà a piegarsi alle regole non
scritte dell’ambiente del pattinaggio, Tonya Harding porta sulle spalle il fardello
di un’infanzia difficile causato da una madre dura e anaffettiva che fin dai
primi anni intende servirsi del suo innato talento per riscattare la propria
insoddisfazione.<o:p></o:p></span></div>
<br />
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 0pt;">
<span style="font-family: "calibri";">Non voglio
raccontarvi altro, andate al cinema - il grande schermo per film come questi è
assolutamente indispensabile - e godetevi i primi piani di virulenta bellezza
della bellissima Margot Robbie, da cui un minuto prima sprizza una fame di
vittoria quasi ferina e subito dopo dilaga il candore della bambina mai
cresciuta che continua suo malgrado a considerare le botte una forma d’amore. Godetevi
l’interpretazione della madre da parte della pluripremiata Allison Janney e le
scene sulla pista di ghiaccio, ottenute grazie agli effetti speciali perché non
è stato possibile trovare una controfigura in grado di eseguire il salto triplo
axel.<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>Godetevi la storia di questa ragazza
sfortunata, rovinata da una madre gelida e cattiva che la fa dubitare del suo
valore umano, condannandola a vivere solo in funzione della performance, in un
desolante deserto affettivo. E infine godetevi la musica che Tonya sceglie per le
sue esibizioni: aggressiva, trasgressiva e indomita come lei.<o:p></o:p></span></div>
Erica Shttp://www.blogger.com/profile/02396576460609719108noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1619436081400323839.post-8957448923850516952018-03-15T17:22:00.001+01:002018-03-15T17:22:55.796+01:00Lady Bird , Greta Gerwig (2018)<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjlMGtUInU9KU0vw2FuiCSHMmshL2XwOcBiaXQRaCYbFtenIrXGh0bXGjISjpSUL6vsVoP-4C_JS9T5HR_IN_jEuOeBJVRlmvI5669XilFQezk_5dfkboGbSuoT7ZvsPgtDdCi25-OA/s1600/LadyBird825.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="497" data-original-width="825" height="240" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjlMGtUInU9KU0vw2FuiCSHMmshL2XwOcBiaXQRaCYbFtenIrXGh0bXGjISjpSUL6vsVoP-4C_JS9T5HR_IN_jEuOeBJVRlmvI5669XilFQezk_5dfkboGbSuoT7ZvsPgtDdCi25-OA/s400/LadyBird825.jpg" width="400" /></a></div>
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 10pt;">
<span style="font-family: "calibri";"><o:p></o:p></span> </div>
<span style="font-family: "calibri";">Il film sembra
bello, asciutto, commovente; si ha la sensazione di trovarsi davanti a un
piccolo capolavoro. “Bene”, direte voi. Invece, se si ha la pazienza di attendere
qualche giorno, di far decantare le emozioni, ahimè, <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>resta poco o niente della storia dell’incantevole
Christine, adolescente di Sacramento all'ultimo anno prima del college. Non è
che non ci tocchino la sue difficoltà ad inserirsi nel gruppo dominante della
classe o che non si percepiscano i disagi del suo barcamenarsi con i primi
approcci sessuali o le amarezze di una vita familare imperfetta. Non è che che
non ci faccia tenerezza, con quel visino pallido e intelligente che sbatte in
faccia alle durezze gratuite del mondo che la circonda. Capiamo per filo e per
segno cosa le passa per la mente, i sogni che le scorrono sotto la pelle e non
smettiamo un momento di fare il tifo per lei. Però, lo stesso, questo film
osannato in patria e candidato a 5 Oscar, in me, non ha lasciato traccia. Un po’
perché si viene subito a sapere che si tratta della storia autobiografica della
regista e questo spiega un indugiare compiaciuto su particolari non
proprio pregnanti, come certe ruvidezze della madre sproporzionate all’entità
dei fatti, ma evidentemente figlie di ricordi duri a morire. <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>Un po’ perché il genere del racconto di
formazione ha precedenti talmente illustri e sfolgoranti, da fare impallidire
qualsiasi tentativo meno che brillante (e questo, brillante non è). Un po’
perché manca il guizzo, la verve – o come la volete chiamare -, <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>quell’idea narrativa che deve sostenere lo
srotolarsi della storia e guidarla verso l’orizzonte, a volte appena intravisto
ma presente, dell’originalità . </span><br />
<span style="font-family: "calibri";">Lady Bird imparerà a volare, dopo un periodo malmostoso
e offuscato, che come di prammatica investe la gran parte degli adolescenti
occidentali, ma il suo volo rimarrà un timido sbattere d’ali. Mi sarei
aspettata un dispiegarsi più maestoso, un planare più coraggioso e liberatorio.
<span style="mso-spacerun: yes;"> </span></span><br />
<span style="font-family: "calibri";"><span style="mso-spacerun: yes;"></span>Prima di concludere, però, bisogna riconoscere che l'interpretazione di Saoirse Ronan è proprio una delizia, e infatti aldilà di ogni considerazione, la giovane attrice ha vinto il Golden
Globe come migliore attrice in un film brillante. <span style="mso-spacerun: yes;"> </span></span>Erica Shttp://www.blogger.com/profile/02396576460609719108noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1619436081400323839.post-17030548704771758262018-03-13T17:23:00.000+01:002018-03-13T17:23:39.960+01:00A casa tutti bene, Gabriele Muccino (2018)
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgPpjrDcP1nABtBGMGg5wOrH3tcCZOF7AQOo9JeUHcJAEh9MThI4lP2KYrhjEtaLYONtLNeP-55Q4dzfkmbAshtzNJcHvR7haksg2RtvueKPzbWgiM6wpuCeqn8PKL-dhLOEngCbOXa/s1600/a+casa+tutti+bene.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="170" data-original-width="296" height="229" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgPpjrDcP1nABtBGMGg5wOrH3tcCZOF7AQOo9JeUHcJAEh9MThI4lP2KYrhjEtaLYONtLNeP-55Q4dzfkmbAshtzNJcHvR7haksg2RtvueKPzbWgiM6wpuCeqn8PKL-dhLOEngCbOXa/s400/a+casa+tutti+bene.jpg" width="400" /></a></div>
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 0pt;">
<span style="font-size: 12pt; line-height: 115%;"><span style="font-family: Calibri;"></span></span> </div>
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 0pt;">
<span style="font-size: 12pt; line-height: 115%;"><span style="font-family: Calibri;">La famiglia protagonista dell’ultimo
film di Gabriele Muccino si riunisce per festeggiare le nozze d’oro di Alba
(Stefania Sandrelli) e Pietro (Ivano Marescotti). La pletora di fratelli, figli
- tutti accompagnati dai relativi coniugi e in un caso anche dalla ex -, cugini
e nipoti costituisce una sorta di brodo primordiale in cui il regista intende innescare e far esplodere i piccoli grandi drammi dell’ipocrisia che
serpeggia nella famiglia borghese. Potrebbe essere già questa una cornice sufficiente
per la buona riuscita dell’esperimento,<span style="mso-spacerun: yes;">
</span>ma il regista non si accontenta e decide<span style="mso-spacerun: yes;">
</span>di inchiavardare i suoi personaggi nell’ancora più solido spazio chiuso
costituito da un’isola (Ischia) da cui, contrariamente ai programmi di tutti i personaggi,
non si può andare via al termine della festa a causa di un’improvvisa tempesta
che blocca i collegamenti con la terraferma. A quel punto, tutte le tensioni
che fino a quel momento sono rimaste sotto traccia, secondo i calcoli del regista, dovrebbero deflagrare senza più
remore e si dovrebbe assistere a una sorta di dramma borghese in cui i
personaggi si svelano per quello che realmente sono. Magari fosse così! Quello
a cui gli spettatori assistono, ahimé, è invece un patetico andirivieni dei
personaggi che, per simulare l’irrequietezza esistenziale che li divora, non smettono
un momento di camminare avanti e indietro tra le
stanze della villa in cui sono alloggiati, il giardino che la circonda e i
vicoli dell’isola, come inesausti burattini che non trovano pace. Senza un briciolo di “necessità” drammaturgica – ma anzi
secondo i piatti automatismi di un copione precotto -, queste esili figurine di
cartone sbattono tra loro come falene impazzite, nel vano tentativo di
significare una lotta interiore che non c’è. Al culmine del “dramma”, Carlo
(Pierfrancesco Favino) finisce quasi per buttare di sotto dalla scogliera l’insopportabile
e stupidissima moglie Ginevra (Carolina Crescentini) che lo tormenta con la sua
gelosia retroattiva, mentre suo fratello (Stefano Accorsi) seduce una bella
cuginetta testè ritrovata e i due vengono platealmente scoperti dalla figlia di
lei che si mette a gridare come un’aquila per l’orrore che la visione dei due avvinghiati
sul letto le suscita. Ci viene da chiederci se Muccino abbia qualche nozione di
psicologia o abbia mai letto almeno un paio di classici della letteratura. La risposta
è no, altrimenti mai avrebbe potuto anche solo concepire sviluppi così
bislacchi e ingenui della sua trama. Vi risparmio il resto, tanto avrete già
capito come la penso.<o:p></o:p></span></span></div>
<span style="font-size: 12pt; line-height: 115%;"><span style="font-family: Calibri;">Il titolo del film poteva richiamare <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>tematiche di pirandelliana memoria, oppure <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>film ottimamente riusciti come “Parenti
serpenti” di Monicelli o “La terrazza” di Scola, tanto per citare i primi che
mi vengono in mente. Il risultato, magari non sarebbe stato originalissimo, ma forse si sarebbero potute passare un paio d'ore di innocuo svago. Invece, ci si annoia mortalmente <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>a seguire l’affastellarsi inutile di
storielline senza spessore, per di più condite da una sequela di luoghi comuni da
cui un regista maturo dovrebbe aver imparato a difendersi almeno un po’.<o:p></o:p></span></span><br />
Erica Shttp://www.blogger.com/profile/02396576460609719108noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1619436081400323839.post-8845689187078833802018-02-20T14:39:00.000+01:002018-02-20T14:40:58.506+01:00La forma dell’acqua, Guillermo Del Toro (2017)<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgicmRolMNPeA82CZgv2K261EcKpg3lu-_EVWlpKz0vbsPt2tc8KeZaTbgZqjC6TXgS-W0kURKGGB-jk06-9r-avx-hft2iSLT7z13achPGfnhJeu-ccp2lLZ5Y7B3L3r-yeLjAqB92/s1600/la+forma+dell%2527acqua.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="358" data-original-width="640" height="222" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgicmRolMNPeA82CZgv2K261EcKpg3lu-_EVWlpKz0vbsPt2tc8KeZaTbgZqjC6TXgS-W0kURKGGB-jk06-9r-avx-hft2iSLT7z13achPGfnhJeu-ccp2lLZ5Y7B3L3r-yeLjAqB92/s400/la+forma+dell%2527acqua.jpg" width="400" /></a></div>
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 0pt;">
<span style="font-family: "calibri";"></span> <span style="font-family: "calibri";">E’ un film
sull’amore e sulla sua capacità di restituire la vita a chi per un motivo o per
un altro la vita l’ha perduta. Siamo nei primi anni sessanta, in piena guerra
fredda, in un laboratorio scientifico in cui lavorano scienziati e militari. Elisa
è una giovane donna muta, impiegata nella ditta che fa le pulizie nel
laboratorio. Vive da sola in un alloggio posizionato proprio sopra una sala
cinematografica dalla quale filtrano musiche e luci che ammantano la routine mattutina
della ragazza con una patina onirica di felliniana memoria. Un giorno, mentre Elisa
pulisce il gigantesco laboratorio segreto, <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>scopre involontariamente l’esistenza di una
misteriosa creatura anfibia, che viene tenuta incatenata in una grande vasca.
L’aspetto della creatura è spaventoso, una sorta di incrocio fra uomo e rettile
con le zampe palmate, l’indole decisamente aggressiva e<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>feroce. Tuttavia Elisa, che forse a causa del
suo handicap è dotata di una sensibilità particolare,<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>è immediatamente attratta dall’essere
misterioso e giorno dopo giorno, di nascosto da tutti, stabilisce con lui un
contatto che piano piano sfocia in un vero e proprio scambio. Sebbene la storia
non sia particolarmente originale – ci vengono in mente la Bella e la Bestia,
ma anche King Kong e Ann Darrow <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>- <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>il film è di quelli in grado di rapire lo
spettatore e di farlo sognare. Perché, come in ogni favola che si rispetti, la
trama è sostanzialmente secondaria, serve più che altro a far progredire la
narrazione, mentre quello che conta sono i particolari, le atmosfere che
vengono evocate, il modo in cui i personaggi sono tratteggiati. <o:p></o:p></span></div>
<span style="font-family: "calibri";">Guillermo
Del Toro, dopo due film di prim’ordine (“La spina del diavolo” del 2001 e “Il
labirinto del fauno” del 2006), con quest’opera vince il Leone d’oro di Venezia
e ottiene 13 nomination all’Oscar, e la cosa non stupisce. Grazie a scelte
iconografiche raffinate, con forti riferimenti al mondo dei fumetti e della
grafica, le immagini vagamente iperrealiste fanno da scenario all’incontro degli
incontri.<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>Quello tra due creature
diverse, emarginate, due veri e propri freaks – vi ricordate il cult movie di
Tod Browning del 1932 intitolato appunto “Freaks”, ambientato<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>In un circo che ha tra le sue attrazioni
esseri bizzarri e deformi tra i quali nascono relazioni amorose? <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>Elisa, con le sue cicatrici sulla gola, che a
distanza di anni raccontano ancora di quando da bambina le fu strappata la
laringe, e il mostro anfibio, <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>che impara
la lingua dei gesti per amor suo, conquistato dal dolce sapore delle uova sode
con cui lei lo ammansisce, assomigliano <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>ai
protagonisti di tante storie dei nostri giorni. Alle tante, troppe creature che
la nostra società mette da parte come fossero merci fallate – pensiamo ai
disabili a cui vengono destinate sempre meno risorse - o addirittura incatena e
tortura a morte <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>per paura della
diversità che rappresentano – pensiamo ai centri di detenzione libici, tanto
per dirne una - o per carpirne inesistenti segreti scientifici – pensiamo
all’atrocità della vivisezione. <o:p></o:p></span><br />
<span style="font-family: "calibri";">Ma siamo al
cinema e questa è una favola, non la realtà di tutti i giorni. Così Elisa e il
suo mostro, grazie all’amore <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>che hanno
saputo riconoscere e suscitare l’uno nell’altra, si salveranno e vivranno
felici in un mondo dove, straordinariamente, <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>l’acqua ha una forma, quella della vita che
può rinascere. <o:p></o:p></span>Erica Shttp://www.blogger.com/profile/02396576460609719108noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1619436081400323839.post-1934617337665297592018-02-15T16:32:00.002+01:002018-02-17T15:35:43.518+01:00Comprare la casa di Sophia Loren<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjHpx9BZ9OU00mm2_5MRjADoxwBXdXtiivTdanGnnF2RNCdfbOLiE4PTvnp6NNfGpoB7P_NmQP9IsdUbtfUwqAPJ6P98m73XiOOW-deyrChP5fVvdoZF2QT5j25SsxpyYNMF9vDQbLj/s1600/Una_giornata_particolare_002.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="687" data-original-width="1272" height="215" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjHpx9BZ9OU00mm2_5MRjADoxwBXdXtiivTdanGnnF2RNCdfbOLiE4PTvnp6NNfGpoB7P_NmQP9IsdUbtfUwqAPJ6P98m73XiOOW-deyrChP5fVvdoZF2QT5j25SsxpyYNMF9vDQbLj/s400/Una_giornata_particolare_002.jpg" width="400" /></a></div>
<br />
Nel 1997, dopo aver cambiato in rapida successione due o tre appartamenti in affitto, mio marito ed io abbiamo cominciato a guardarci intorno con l'intenzione di fare il grande passo e comprare finalmente una casa nostra. Matrimonio, due figli piccolissimi e lavoro stabile erano le precondizioni che giustificavano il progetto. A ripensarci, abbiamo fatto non bene, ma benissimo. Erano anni in cui le banche proponevano mutui "convenienti" a tasso fisso e, a conti fatti, guardando cosa è successo dopo, non saremmo mai più riusciti nell'intento. Anche perché, va detto, abbiamo fatto tutto da soli, senza aiuti iniziali né fortunate eredità da reinvestire. Tornando al momento della decisione iniziale, conservo un bellissimo ricordo di quel periodo trascorso in allegro girovagare alla ricerca della casetta dei nostri sogni, dove come tutte le neomamme felici di ogni tempo mi vedevo già tutta presa ad attaccare tendine ricamate ai vetri delle finestre e ridipingere mobili di recupero mentre i bambini giocavano allegri sul tappeto del salotto. La casa la trovammo abbastanza rapidamente, è la stessa in cui abitiamo ancora oggi, dopo un intervallo trascorso in un quartiere limitrofo, ma in un appartamento molto più grande e più adatto alla fase adolescenziale dei figli, periodo in cui, si sa, le distanze non sono mai troppe. Un'amica architetto ci aiutò a ristrutturarlo in modo accattivante e dopo varie peripezie traslocammo durante un'estate torrida, felici di essere entrati nel novero dei "proprietari".<br />
Ma la parte più divertente di tutto quel periodo fu la ricerca dell'appartamento e le numerosissime visite che facevamo durante le pause pranzo e i fine settimana. Tra le tante case che visitammo, ce ne fu una che ci conquistò subito, ma che era disperatamente piccola e infatti non ne facemmo di nulla. Era all'ultimo piano e affacciava su Via XXI Aprile, e fino a qui niente di speciale. Il bello era che faceva parte dei Palazzi Federici, e questo per noi, malati di cinema, era un irresistibile valore aggiunto. L'idea di attraversare ogni giorno il cortile su cui affacciava la cucina di Sophia Loren e la camera di Marcello Mastroianni nel film "Una giornata particolare" di Ettore Scola ci sembrava un sogno. Poter andare sul <em>quel</em> terrazzo condominiale a stendere le lenzuola fresche di bucato, ci appariva come la prospettiva più desiderabile di tutte. E poco importava se l'appartamento misurasse al massimo una settantina di metri quadri, non avevamo certo paura di un po' di intimità. <br />
Fortunatamente, continuammo a vedere altre case e via via che passavano i giorni capimmo, ognuno per conto suo, che sarebbe stata una sciocchezza sacrificare spazio e comodità in nome di un capriccio. Oggi, guardandomi indietro, ringrazio la nostra scelta perché la casa che abbiamo poi deciso di acquistare si è rivelata nel tempo un'ottima scelta, mentre quell'appartamentino minuscolo avrebbe nel giro di poco tempo mostrato tutta la sua inadeguatezza a contenerci con il giusto conforto. Tuttavia, quando mi capita di passare là sotto, e succede almeno un paio di volte alla settimana, non posso non pensare a come sarebbe stato svegliarmi sotto lo stesso tetto di quel capolavoro di film, visto e rivisto tante volte.Erica Shttp://www.blogger.com/profile/02396576460609719108noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1619436081400323839.post-45971879597951092832018-02-08T15:06:00.004+01:002018-02-08T15:42:30.743+01:00La ruota delle meraviglie, Woody Allen (2017)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhodbcm6FmzNANYDXO13gU710ziExEGjRivMM5vKm2V3XrZ7-7B8vKprK13SBZQ5TGvblotzW3a0P1NJLNHXz0DMk8VkJ1cdU1ZcOFYmH1WgtJ7FThgTIECOnxIUmEHV4cNm808kHRp/s1600/ruota+1.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="195" data-original-width="260" height="298" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhodbcm6FmzNANYDXO13gU710ziExEGjRivMM5vKm2V3XrZ7-7B8vKprK13SBZQ5TGvblotzW3a0P1NJLNHXz0DMk8VkJ1cdU1ZcOFYmH1WgtJ7FThgTIECOnxIUmEHV4cNm808kHRp/s400/ruota+1.jpg" width="400" /></a></div>
<br />
“La ruota delle meraviglie” di Woody Allen mantiene ciò che promette nel titolo, inanellando come perle elementi cinematografici di prima grandezza che si valorizzano a vicenda dando luogo a un film complesso e toccante dove non si ride mai e si pensa molto. La fotografia di Storaro, che da sola basterebbe a tenere in piedi il film grazie alla sua rotonda perfezione, fornisce uno dei motivi di maggior godimento estetico. Gli attori, prima su tutti una grandiosa Kate Winslet, <span class="text_exposed_hide">...</span><span class="text_exposed_show">offrono una prova di recitazione da manuale, reggendo senza apparente fatica lunghissimi primi piani di straordinaria intensità. Infine, il testo dello script (anch’esso di Woody Allen), che si rifà apertamente ai drammi di Tennessee Williams in cui le vite dei protagonisti si incagliano senza rimedio, finendo per smarrirsi in un vuoto sognante e doloroso da cui non ci si può salvare. Al di là della trama, ciò che conta è la capacità di mettere in scena la resa dei protagonisti di fronte al fallimento della propria vita e di rendere palpabile la banalità crudele della loro disperazione. Un Woody Allen che con l’andare del tempo attinge sempre meno alla comicità e all’ironia, preferendo toni più drammatici per affondare la lama del suo genio nella descrizione pura e semplice dell’animo umano. Insomma, potremmo dire, sempre meno Freud e, al contrario, sempre più Shakespeare</span>Erica Shttp://www.blogger.com/profile/02396576460609719108noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1619436081400323839.post-45716955090510785632018-02-08T15:03:00.002+01:002018-02-08T15:58:29.656+01:00L'insulto, Ziad Doueiri (2017)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgRp_x4GzTm6rzwE6GpLrztFDBy47_XA9GEPeedTmjPOl6AMPJXu2IqTpwC0vLBGZ0qnNp6i5UawopQnvmlSkbHngGlqNkjcwYEf4aXV6580Y3CH6pGSZqTHH-I4pdEEqaB_JDyC2-I/s1600/insulto.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" data-original-height="147" data-original-width="343" height="171" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgRp_x4GzTm6rzwE6GpLrztFDBy47_XA9GEPeedTmjPOl6AMPJXu2IqTpwC0vLBGZ0qnNp6i5UawopQnvmlSkbHngGlqNkjcwYEf4aXV6580Y3CH6pGSZqTHH-I4pdEEqaB_JDyC2-I/s400/insulto.jpg" width="400" /></a></div>
<span style="font-size: 12pt; line-height: 115%;"><span style="font-family: "calibri";">Tra le tante
cose fatte in questi giorni, ho visto un film che vi consiglio caldamente di
non perdere, sia per la profondità dei contenuti che affronta, <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>sia per il nitore della forma. <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>Si tratta de “L’insulto” del regista libanese
Ziad Doueiri, premiato a Venezia con la Coppa Volpi a Kamel El Basha per la migliore
interpretazione maschile. Ambientato a Beirut e scaturito da un episodio
realmente accaduto – il regista e co-sceneggiatore racconta di aver insultato
realmente una persona in un momento di nervosismo -, il film mette in scena con
passione e maestria il risvolto emotivo che si annida in ogni conflitto etnico
e religioso, anche se apparentemente di piccolissimo calibro. E prendendo le
mosse dall’aspro litigio tra un profugo palestinese e un militante nella destra
cristiana, nato da una banale questione di tubi che sgocciolano sulla strada, racconta
di come sia possibile superare un’antitesi che altrimenti rimarrebbe
insanabile, soltanto attraverso la presa in carico di una visione politica
delle cose, unica via percorribile in grado di riportare il dissidio sul piano
di categorie dal respiro più vasto, come la responsabilità, il rispetto,
l’etica. Primi piani<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>intensi,<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>fotografia potente, dialoghi senza sbavature
e colonna sonora efficace, insomma… non fatevelo scappare!<o:p></o:p></span></span>Erica Shttp://www.blogger.com/profile/02396576460609719108noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1619436081400323839.post-19650403731186009022018-02-08T14:59:00.001+01:002018-02-08T15:46:33.703+01:00The Post, Steven Spielberg (2017)<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiO0R-NVE8zrAMgVmS8tOaZG5sB-KsnRvsezx1wS8yfIqf61FgpWfxVNnhjBQHyawKMKXP6_7ymo4ZIxFgDNivLoTRs-By_myKf8tNGiVz2KfV7tXyiYao35t4cnILznGwvCEY1xHET/s1600/Post.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="168" data-original-width="300" height="358" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiO0R-NVE8zrAMgVmS8tOaZG5sB-KsnRvsezx1wS8yfIqf61FgpWfxVNnhjBQHyawKMKXP6_7ymo4ZIxFgDNivLoTRs-By_myKf8tNGiVz2KfV7tXyiYao35t4cnILznGwvCEY1xHET/s640/Post.jpg" width="640" /></a></div>
<br />
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 0pt;">
<span style="line-height: 115%;"><span style="font-family: "calibri";">Sono volata a vedere “The Post” di
Spielberg, già ampiamente conquistata dalle poche sequenze intraviste nel
trailer. Domenica sera,<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>cinema pieno,
meraviglioso sprofondare nella morbidezza della poltrona e nel buio della sala.
Che dire… un film che è esattamente come mi aspettavo: un thriller politico che
racconta la storia dietro alla pubblicazione dei "Quaderni del
Pentagono", avvenuta agli inizi degli anni settanta sul Washington Post. Narrazione
tradizionale, costruzione solida, ritmo privo di incertezze dal primo
all’ultimo fotogramma, alta densità dei dialoghi, che appaga senza risultare
eccessiva, nonostante il flusso non dia tregua neanche per un istante. Meryl
Streep e Tom Hanks, rispettivamente editore e direttore del Washington Post,
campeggiano come possenti e attempati leoni e tutta l’intricata vicenda si
srotola senza intoppi fino alla conclusione, a cui si giunge con un’andatura di
trotto energico ma non nervoso. Come se non bastasse, il film è impreziosito da
un’attenta ricostruzione storica degli ambienti e dei personaggi. Penso all’arredamento
delle abitazioni dei protagonisti, alla gigantesca tipografia in cui viene
stampato il quotidiano, alla scena in cui si vedono le copie del Post che a
migliaia passano dalla rotativa alla pancia dei furgoni, pronti per essere
consegnati, agli elegantissimi abiti di Kay Graham e di Ben Bradlee. Un
capolavoro di cura per i dettagli degno di un vero maestro del cinema – viene
in mente il talento di Luchino Visconti quando si tratta di rievocare i fasti
del Gattopardo o quelli di Ludwig. E del resto, per capacità narrativa e coraggio
nel dispiegamento di forze, Spielberg al nostro maestro italiano un po’ assomiglia.<o:p></o:p></span></span></div>
<br />
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 0pt;">
<span style="line-height: 115%;"><span style="font-family: "calibri";">Fin qui, però, si tratta di
un’equazione che resta nella norma: ottimo regista = ottimo film. E invece,
nascosto nelle pieghe della sceneggiatura, fa capolino un tassello che mi ha
commosso profondamente. Una scena senza la quale il film andrebbe avanti
ugualmente, ma non sarebbe lo stesso. Il momento in cui Kay, seduta sul letto
in vestaglia, mentre addormenta le nipotine, racconta alla figlia come è stato
difficile guidare il suo giornale dopo la morte prematura del marito, che lo
aveva a sua volta ricevuto dal padre di lei. “Io non avevo mai avuto un ruolo”,
mormora Kay, scuotendo dolcemente la testa, con lo sguardo perduto verso un
punto lontano del suo passato.<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>Come per quasi
tutte le donne di quegli anni, <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>per
quanto ricche, colte e raffinate, <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>anche
per lei l’emancipazione era un miraggio. Kay, se il marito non fosse morto, non
si sarebbe mai ritrovata alla guida dell’azienda di famiglia e anche quando il
marito muore - e lei, che è una donna affabile e intelligente, viene lasciata
libera di prendere la guida del Post – dovrà subire per lunghi anni
l’umiliazione di sentirsi trasparente agli occhi dei suoi colleghi maschi. Rispettata,
stimata per il coraggio e la serietà, ma trasparente. Fino a quando, pochi
giorni prima, non le si è prospetta di colpo l’occasione di far sentire la sua
voce, forte e chiara, e dopo non pochi tentennamenti, ha deciso di farsi
valere. Onore a Spielberg per aver voluto incastonare questo frammento di
storia femminile nel suo bellissimo film. E ora basta, non vi racconto altro, ma
voi andate a vederlo (!)<o:p></o:p></span></span></div>
<br />
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 10pt;">
<span style="line-height: 115%;"><o:p><span style="font-family: "calibri";"> </span></o:p></span></div>
Erica Shttp://www.blogger.com/profile/02396576460609719108noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1619436081400323839.post-3942123633094149132018-02-08T14:54:00.002+01:002018-02-08T15:50:42.744+01:00Tre manifesti a Ebbing, Missouri, Martin McDonagh (2017)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj0ZU80yta5uamaaE05PNa8niW1z43A_d0oL0LsHPomzbpIlsq9vSRxBRdrbcUhgiqUyEskCf6nbyxyLBq4DPc5WAASksk_BJL7PEO9llqCr0_RxtSfPND1qj1avTBHKO59cEUJaL3v/s1600/tre+manifesti.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="159" data-original-width="318" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj0ZU80yta5uamaaE05PNa8niW1z43A_d0oL0LsHPomzbpIlsq9vSRxBRdrbcUhgiqUyEskCf6nbyxyLBq4DPc5WAASksk_BJL7PEO9llqCr0_RxtSfPND1qj1avTBHKO59cEUJaL3v/s640/tre+manifesti.jpg" width="640" /></a></div>
<br />
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 10pt;">
<span style="font-family: "calibri";">Sono finalmente andata a vedere “Tre manifesti a Ebbing,
Missouri” di Martin McDonagh. Mi aspettavo molto e molto ho avuto. Film poderoso,
inclemente, intessuto di strazio e violenza, pieno di citazioni da cinefili e
screziato da un’ironia devastante. C’è <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>un che di biblico in quei paesaggi sgraziati e
scabri, nelle rughe di quei volti aridi, nelle storie che si dipanano sotto la glaciale
indifferenza del cielo. La provincia americana come ce la immaginiamo quando si
pensa al peggio del peggio, l’America profonda dove non c’è scampo possibile a
un’esistenza incrollabilmente priva di qualunque tratto di grazia e bellezza.
Perfino il ricordo straziato di Mildred, che rievoca gli ultimi momenti in cui
sua figlia era viva, pochi minuti prima di essere uccisa e stuprata mentre
moriva, si apre su uno squarcio di lampeggiante degrado:<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>“Sei una troia!”, grida inferocita la
ragazzina alla madre quando viene a sapere che dovrà andare a piedi, “E se mi
stuprano?” sibila cattiva. “Speriamo che ti stuprino!”, le risponde esasperata
la madre. Naturalmente<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>l’atroce
maledizione si compie e Mildred diventa una dannata che cammina. Una povera
donna che intreccia la sua storia miserabile a quelle di uno sceriffo,
destinato di lì a poco a perdere orribilmente tutto ciò che ha, e di un
poliziotto complessato e sadico che trascina la sua vita appeso alle gonnelle
di una madre ignobile . Tre figure che si aggirano sullo schermo restituendoci
l’orrore della vita quando va male. Mentre sullo sfondo i tre giganteschi
manifesti piantati in uno sterminato campo riarso dichiarano al cielo tutta
l’inutilità della loro domanda. Un film formidabile, intelligente, che va visto
e forse anche rivisto, se non altro per capire come sia drammaturgicamente<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>possibile che, a tratti, si riesca quasi a
ridere di quel che si vede.<o:p></o:p></span></div>
Erica Shttp://www.blogger.com/profile/02396576460609719108noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1619436081400323839.post-43262248549197616632018-02-08T14:44:00.000+01:002018-02-08T15:47:55.226+01:00Ella e John, Paolo Virzì (2017)<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEivPvZ0M-P_M4P0-NwVgbc4IKfJA0zV2jrco3yr6cBPCLsWXdiJLgpNSSoMkgWB16btKNaxZBqFeAmy1CLX_g1PhJxdRLu3DdBw8vrJAsO3xvRQDoRXrZxcu0YEPDa7A9GEI8NQyrGp/s1600/ella+e+john.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="159" data-original-width="318" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEivPvZ0M-P_M4P0-NwVgbc4IKfJA0zV2jrco3yr6cBPCLsWXdiJLgpNSSoMkgWB16btKNaxZBqFeAmy1CLX_g1PhJxdRLu3DdBw8vrJAsO3xvRQDoRXrZxcu0YEPDa7A9GEI8NQyrGp/s400/ella+e+john.jpg" width="400" /></a></div>
<br />
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 0pt;">
<span style="font-family: "calibri";">“Ella e John”,
l’ultimo film di Paolo Virzì piacerà agli spettatori per vari motivi, <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>tutti molto diversi tra loro. C’è chi lo
apprezzerà perché affronta con coraggio il delicato argomento degli ultimi
mesi/anni di vita, mostrandoci come sia sempre possibile sottrarsi a certe
conclusioni cupe e crudelmente solitarie. C’è chi verrà conquistato dalla
struttura narrativa del film che è a tutti gli effetti un road movie, affidabile
<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>cornice ever green, ancora una volta in
grado di regalarci paesaggi mozzafiato e una colonna sonora che levati. C’è chi
ne apprezzerà<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>con divertito interesse lo
spaccato di società che emerge, comparandolo con la nostra realtà e impiegando
il tempo del film a ipotizzare come sarebbe, qui da noi, fuggire a bordo di un
vecchio camper il giorno in cui ci si deve presentare in ospedale per essere ricoverati.
E poi ci siamo noi. Noi che eravamo bambini proprio mentre Ella e John erano
giovani genitori, ovvero in quel periodo magico in cui si respirava l’aria
leggera della liberazione da ogni possibile fardello di regole grigie e
polverose. Noi che nelle nostre case avevamo il permesso di disegnare <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>sulle pareti e che invece di tovaglie
impeccabilmente stirate avevamo sottopiatti di paglia intrecciata. Noi che non
abbiamo avuto rassicuranti torte di mele nel forno né pavimenti tirati a lucido
e statuine capodimonte nella vetrinetta del salotto, ma libri dappertutto, cibi
macrobiotici nei piatti di legno, stanze allegramente disordinate e inondate di
incenso e musica dodecafonica. Noi che guardavamo la Tv dei ragazzi su divani seppelliti
da pile di quotidiani e di fumetti. Noi che d’estate non avevamo seconde case
in cui villeggiare dopo averle ben arieggiate, ma passavamo le vacanze in
campeggio e dormivamo in tenda, sotto i pini, mentre fuori frinivano i grilli e
brillavano le stelle. Noi che abbiamo avuto genitori che prima di essere tali
erano “coppia” e che ancora oggi <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>l’uno
senza l’altra non sanno stare. <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>Noi che proprio
grazie a loro siamo stati genitori diversi e che per amore dei nostri bambini abbiamo
saputo recuperare regole, ordine e tradizione. E che ormai li abbiamo
perdonati, quei genitori lì – eterni ragazzi in cerca di leggerezza.<o:p></o:p></span></div>
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<br /></div>
Erica Shttp://www.blogger.com/profile/02396576460609719108noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1619436081400323839.post-31939326430032019752018-02-08T14:35:00.000+01:002018-02-08T15:55:16.197+01:00Come un gatto in tangenziale, Riccardo Milani (2017)<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiSOSiw_etYQMLGXnINTRwtp7QclEmeFX8r9SA0PYdADmP4UMqG3AP35FZOam1iYHuXqV2UPwxyadRu_3QbGiqeGvtYSm4vpvVgGwpuXHnUM4jTETkX89hluwAfTgu7iggwOl0rtr5g/s1600/Come-un-gatto-in-tangenziale-cortellesi-Albanese.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="578" data-original-width="867" height="266" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiSOSiw_etYQMLGXnINTRwtp7QclEmeFX8r9SA0PYdADmP4UMqG3AP35FZOam1iYHuXqV2UPwxyadRu_3QbGiqeGvtYSm4vpvVgGwpuXHnUM4jTETkX89hluwAfTgu7iggwOl0rtr5g/s400/Come-un-gatto-in-tangenziale-cortellesi-Albanese.jpg" width="400" /></a></div>
<span style="font-size: 14pt; line-height: 115%;"><span style="font-family: "calibri";"><span style="font-size: small;">Qualche
giorno fa sono andata a vedere “Come un gatto in tangenziale” di Milani, per il
gusto di vedere la coppia d’oro della comicità Albanese-Cortellesi alle prese
con i luoghi comuni del conflitto sociale. Il film è molto divertente, si ride
parecchio e non solo di pancia. L’eterna antinomia tra centro e periferia (lo
“spaventoso” residence Bastogi), tra ricchi che lavorano nei think tank e
poveri che sbarcano il lunario facendo le pulizie, tra il salotto borghese
radical chic e il tinello coatto tirato a lucido, tra l’orrore di quella lingua
di spiaggia fangosa che confina con le piste dell’aeroporto e si chiama niente
meno che Coccia di Morto e lo splendore immoto delle dune di Capalbio, con
tutti gli annessi e connessi di battute e situazioni, fa naturalmente ridere
molto, ma fa anche riflettere. Non tanto alla natura del conflitto tra i due
mondi - che francamente sono altri i luoghi deputati ad affrontare l’argomento
con qualche risultato -, quanto piuttosto all’originalità di questo prodotto
della commedia italiana. Che ovviamente stigmatizza le debolezze dei suoi personaggi
con l’obiettivo di aggiungere un tassello di analisi sociale alla comprensione
del mondo circostante da parte dello spettatore. Ma per far questo, anziché
lavorare sui personaggi, si concentra con profitto sulla funzione del “luogo
comune”. E infatti, il film di Milani gronda luoghi comuni al punto che,
escludendo ragionevolmente che gli sia sfuggita la mano (troppa esperienza,
troppo mestiere, troppa consapevolezza), diventa chiaro come ad essi venga
affidata l’interpretazione della realtà. I luoghi comuni, immediatamente
riconoscibili e comprensibili dal pubblico, proprio per la loro natura “comune”
e non sofisticata, tessono la tela di un moderno canovaccio di commedia
dell’arte. E tirando il filo di quella trama, (ri)conosciuta e condivisa, gli
spettatori osservano dal di fuori ciascuno il proprio mondo di appartenenza e
ne ridono, scoprendone il lato irresistibilmente ridicolo.<o:p></o:p></span></span></span><br />
<br />
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 10pt;">
<span style="font-size: 14pt; line-height: 115%;"><o:p><span style="font-family: "calibri";"></span></o:p><span style="font-family: "calibri";"></span></span><br />
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 10pt;">
<span style="font-size: 14pt; line-height: 115%;"><span style="font-family: "calibri";"> </span></span></div>
<br />
<span style="font-size: 14pt; line-height: 115%;"><span style="font-family: "calibri";"></span></span><br />
<br /></div>
Erica Shttp://www.blogger.com/profile/02396576460609719108noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1619436081400323839.post-77501640672243772502016-03-04T18:06:00.002+01:002016-03-05T08:59:33.616+01:00"Lost in translation", Sofia Coppola (2003)<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEii_CFHOjU6uWL7pG0JwXqihziHZ-um-iDAmFHbqsu_8M5rxaD9JXzadnm4AnyXcsxMT0knUOGRLyUVijxWIXrtfbdjh9zweXe-wdLuIwZSV8ZZzvlLbX7iKS57_fYtBqqqN4_4Rhxk/s1600/bill-murray-lost-in-translation.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="280" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEii_CFHOjU6uWL7pG0JwXqihziHZ-um-iDAmFHbqsu_8M5rxaD9JXzadnm4AnyXcsxMT0knUOGRLyUVijxWIXrtfbdjh9zweXe-wdLuIwZSV8ZZzvlLbX7iKS57_fYtBqqqN4_4Rhxk/s400/bill-murray-lost-in-translation.jpg" width="400" /></a></div>
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 10pt;">
</div>
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 10pt;">
<span style="color: #141414; mso-bidi-font-family: Arial;"><span style="font-family: "calibri";">Nel
passaggio da una lingua ad un'altra può esserci qualcosa che si perde perché <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>molto difficile o impossibile da rendere. Quello
che va perso, è "lost in translation". Nel film di Sofia Coppola, che
vince l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale, <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>l'espressione si riferisce alla difficoltà di
comunicare che riguarda i protagonisti: Bob Harris (Bill Murray), un divo della
TV americana che si trova a Tokyo per girare lo spot di un whisky, e Charlotte,
giovane moglie di un fotografo di successo e molto indaffarato che l’ha portata
con sé a Tokyo (interpretata da una strepitosa Scarlett Johansson che all’epoca
aveva appena 18 anni). I due alloggiano nello stesso raffinato hotel, soffrono
d’insonnia e hanno molte ore da trascorrere in solitudine, aspettando lui il
momento delle riprese e lei le brevi apparizioni del marito. Immersi
nell’acquario ovattato di un mondo <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>di
cui non riconoscono il linguaggio – siamo in Giappone – Bob e Charlotte non
fanno altro che osservare con attenzione e disponibilità tutto ciò che li
circonda e in cui si imbattono ogni volta che escono dalle eleganti geometrie
delle loro stanze. Ad ingigantire la percezione della solitudine e della
difficoltà di comunicare, concorrono le telefonate colme di equivoci e di
incomprensioni che Bob scambia con la moglie lontana e le frammentarie,
brevissime conversazioni di Charlotte con il marito che non viene mai neppure
inquadrato.</span></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 10pt;">
<span style="color: #141414; mso-bidi-font-family: Arial;"></span><span style="color: #141414; mso-bidi-font-family: Arial;"><span style="font-family: "calibri";">Finché
un giorno Bob e Charlotte si incontrano. E da quel momento la solitudine e lo
straniamento lasciano il posto al piacere di rincontrarsi, di seguirsi con lo
sguardo, di ascoltarsi. Diventano amici e forse si innamorano, ma nessuno dei
due è disposto a farsi travolgere. Alla fine, dopo un saluto sbagliato in cui
disagio e orgoglio prendono il sopravvento, Bob – che è comunque un uomo maturo
e più capace di gestire la situazione rispetto alla giovanissima Charlotte –
riesce a porre rimedio, dando un nuovo senso a quella che sarà la vita di
entrambi da quel momento in poi. E’ struggente la scena finale, in cui lui la
riconosce di spalle nella folla, la rincorre e dopo averla raggiunta la
abbraccia stretta e le sussurra qualcosa che noi - ahimè - non riusciamo a
sentire.” Cosa le avrà detto?”, ci chiediamo.<span style="mso-spacerun: yes;">
</span>Perché lei lo abbraccia così forte sporgendosi tutta sulla punta dei suoi minuscoli piedi?
E, soprattutto, perché alla fine lui la lascia definitivamente andare e lei si
allontana con quel lampo di felicità negli occhi? "Lost in translation", risponde
Sofia Coppola: è finita, ma ne sarà comunque valsa la pena.<o:p></o:p></span></span></div>
Erica Shttp://www.blogger.com/profile/02396576460609719108noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1619436081400323839.post-53858868080035686732016-03-03T15:43:00.002+01:002016-03-03T15:44:19.630+01:00“Fuocoammare”, Gianfranco Rosi (2016)<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgDyVo0iRjYwwkhyphenhyphenfnRDkiLpYhb3YquuaYJaT8OnD-DshVWv8V69s29GakW4JZs8mTYEtQ1I7eqf2b9UGLrh6pmC-qOvILNBz2uaKonTGy78BQYiQ9hxy0wo4kTHxjJhZNcRoBuonKs/s1600/fuocoammare-v3-28673.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="225" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgDyVo0iRjYwwkhyphenhyphenfnRDkiLpYhb3YquuaYJaT8OnD-DshVWv8V69s29GakW4JZs8mTYEtQ1I7eqf2b9UGLrh6pmC-qOvILNBz2uaKonTGy78BQYiQ9hxy0wo4kTHxjJhZNcRoBuonKs/s400/fuocoammare-v3-28673.jpg" width="400" /></a></div>
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 0pt;">
<span style="font-family: "calibri";"></span> </div>
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 0pt;">
<span style="font-family: "calibri";">Il
documentario, frutto del soggiorno durato oltre un anno di Gianfranco Rosi a
Lampedusa e recentemente premiato a Berlino, è costruito alternando la storia
di Samuele, simpatico e dolce ragazzino di 12 anni che combatte la sua
personale battaglia contro l’occhio pigro, il mal di mare e la difficoltà a
respirare con serena accettazione e senza smettere di tirare con la fionda e di
andare a scuola, e quella dei migranti che quotidianamente sbarcano sull’isola dove
vengono salvati, <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>accolti, curati e qualche volta seppelliti. </span><span style="font-family: "calibri";">A spezzare
questo ritmo perfettamente simmetrico e altalenante, a cui lo spettatore si
abitua subito, ci sono brevi intersezioni in cui fanno la loro comparsa gli
altri personaggi. I più importanti sono il medico, che interpreta se stesso e
ci racconta lo strazio ma anche la bellezza di quello che fa ogni giorno, e la
nonna, a cui è affidato il compito di incarnare l’ineffabile scorrere del<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>tempo umano. <o:p></o:p></span></div>
<span style="font-family: "calibri";">La tragedia
che si consuma da mesi e mesi a pochi metri da quelle casette essenziali e
immote come caverne preistoriche non modifica i gesti della quotidianità.
Mentre a largo,<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>i barconi si svuotano
uno dopo l’altro con l’aiuto della marina militare <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>e dei cooperanti, che svolgono il loro lavoro
con attenzione e pacata solerzia,<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>la
nonna ogni giorno prepara da mangiare mentre ascolta la radio locale e rifà con
grande cura il suo immenso letto matrimoniale, intorno al quale vegliano
statuine di santi e di madonne a cui la donna dà un bacio ogni mattina. Il
massimo dello stravolgimento che possiamo immaginare – la paurosa traversata di
un mare gonfio e insidioso, in fuga dalla fame, dalla guerra e dalla
distruzione, diretti verso un futuro spaventosamente ignoto – e la stasi senza
tempo della vita dei lampedusani sull’isola.<o:p></o:p></span><br />
<span style="font-family: "calibri";">Non si
tratta però di una contrapposizione polemica tra il dramma umanitario da una
parte e l’indifferenza di chi tutto sommato non è direttamente coinvolto dall’altra.
Tutt’altro… emerge semmai<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>una sorta di
asciutta empatia, di umanissima pietas, di carnale consapevolezza che la vita
non si può scegliere; ciascuno di noi porta il fardello <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>che gli è toccato in sorte, senza farsi domande
perché non ci sono risposte. Vengono in mente le grandi narrazioni omeriche, in
cui i personaggi accettano il destino con semplicità, come un dato di fatto di
cui è inutile discutere. Ed è con la stessa semplicità che in “Fuocoammare” <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>il medico cura i migranti mentre a poche
centinaia di metri la nonna prepara da mangiare per Samuele.<o:p></o:p></span>Erica Shttp://www.blogger.com/profile/02396576460609719108noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1619436081400323839.post-54219173946034194052016-03-02T15:33:00.000+01:002016-03-02T15:38:38.259+01:00<br />
<h2 class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 10pt;">
<span style="color: red;">“Perfetti sconosciuti”, Paolo Genovese (2016)</span></h2>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjNieTEHsIDyaeUAxg47D8MUnS5jQbYzZ97ynd1UFAHUCtolYbOeavXi22bjl_r3F2CvnRD1D8h6diCF-reeJNP_dnnGBvknhui1HawDYlTGwO9bHFCleMRXH2OLUPUsCY3F8XUXRDp/s1600/perfetti+sco.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="265" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjNieTEHsIDyaeUAxg47D8MUnS5jQbYzZ97ynd1UFAHUCtolYbOeavXi22bjl_r3F2CvnRD1D8h6diCF-reeJNP_dnnGBvknhui1HawDYlTGwO9bHFCleMRXH2OLUPUsCY3F8XUXRDp/s400/perfetti+sco.jpg" width="400" /></a></div>
<div class="MsoNormal" style="margin: 0cm 0cm 10pt;">
<span style="font-family: "calibri";"><o:p></o:p></span> </div>
<span style="font-family: "calibri";">“Siamo frangibili” dice Giallini verso la fine del film.
Frangibili non significa solo fragili, è un termine che tiene <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>l’attenzione volutamente ferma sulla
probabilità che un oggetto ha <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>di
frangersi, di rompersi. Per far sì che l’oggetto in questione – che poi saremmo
noi – non si rompa, dobbiamo evitare gesti<span style="mso-spacerun: yes;">
</span>inconsulti. Come quello di fare il gioco di leggere a voce alta i
messaggi che arrivano sui cellulari e di rispondere alle telefonate in vivavoce
durante una cena tra amici che si conoscono e si frequentano da una vita. Non
svelerò nulla né dell’intreccio né del finale del film, perché si tratta di una
storia dove l’ingrediente principale – come in ogni commedia che si rispetti –
è il colpo di scena, l’elemento sorpresa. Dirò che questo gruppo di esperti e
collaudati attori italiani, ancora una volta riuniti (di questi tempi capita
spesso) nella elegante sala da pranzo della coppia più benestante, ci offre una
efficacissima prova di recitazione regalandoci il piacere di venire
letteralmente catturati dal meccanismo della narrazione. Con la guida di una sapiente
sceneggiatura (vedete quanto conta la sceneggiatura?) e della regia di Paolo Genovese,
avvezzo alle necessità di sintesi del linguaggio pubblicitario, i personaggi <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>riescono a comunicare stupore autentico <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>e grottesco sperdimento, proprio come succede
nella vita vera quando la realtà supera la fantasia. Ma questo solido ancorarsi
alla verosimiglianza, che è una caratteristica piuttosto tipica del linguaggio
pubblicitario, paradossalmente mette “Perfetti sconosciuti” al riparo di ogni
rischio di intimismo e lo fa volare sulle tavole di una sorta <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>di palcoscenico immaginario. E quando un film
ci dà l’illusione del teatro è sempre un risultato di cui rallegrarsi, perché
vuol dire che la struttura del racconto tiene alla grande.<o:p></o:p></span>Erica Shttp://www.blogger.com/profile/02396576460609719108noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-1619436081400323839.post-59794080524488814202016-02-14T09:22:00.001+01:002016-02-14T09:39:22.786+01:00"Le sceneggiature di Harold Pinter", Introduzione<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEji1iiOXhJiAwEuzSV2WiGB1PF3UPQGyzQPnO_fOceS1NRidchZpypAL5ZQEdFEw6iYXzfGEPKLVgei8zXVupR32aLsRHhv7xG3XoOtIJ7_H1154pIgYJUrOpAouKraSp8_VD18OOTA/s1600/laboratorio_di_sceneggiatura_cinematografica_-_casalecchio.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="331" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEji1iiOXhJiAwEuzSV2WiGB1PF3UPQGyzQPnO_fOceS1NRidchZpypAL5ZQEdFEw6iYXzfGEPKLVgei8zXVupR32aLsRHhv7xG3XoOtIJ7_H1154pIgYJUrOpAouKraSp8_VD18OOTA/s400/laboratorio_di_sceneggiatura_cinematografica_-_casalecchio.jpg" width="400" /></a></div>
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La principale difficoltà in cui ci si imbatte nel fare della sceneggiatura l'oggetto di una analisi interpretativa consiste nel fatto che essa appartiene al linguaggio letterario, ma rimanda al linguaggio cinematografico. Non solo: la sceneggiatura è per definizione una struttura linguistica che trova compiutezza soltanto se trasferita sullo schermo. Una sceneggiatura che non viene realizzata, virtualmente - a parte rare eccezioni -, <i>non esiste</i>.<br />
Il linguaggio cinematografico, a cui la sceneggiatura continuamente rimanda e allude e senza la prospettiva del quale essa sembra non aver ancora trovato ragioni sufficientemente valide per imporsi in modo decisivo, utilizza un sistema di segni che, nonostante numerosi tentativi, rifiuta ogni codificazione <i>generale</i>, limitandosi tutt'al più ad essere analizzato all'interno del singolo film. Risultano, dunque, ancora valide le parole di Roland Barthes, che in un'intervista pubblicata nel 1963 su "Cahiers du cinéma" afferma: "A tutt'oggi ci sembra che il modello di tutti i linguaggi sia la parola, il linguaggio articolato. Ora questo linguaggio articolato è un codice, utilizza un sistema di segni non analogici (e che di conseguenza possono essere, e sono, discontinui); viceversa il cinema si offre immediatamente come un'espressione analogica e continua non si sa da che parte prenderla per introdurvi, abbozzarvi un'analisi di tipo linguistico; per esempio, come ritagliare (semanticamente), come far variare il senso di un film, di un frammento di film? Così il critico che volesse trattare il cinema come linguaggio, abbandonando l'inflazione metaforica del termine, dovrebbe in primo luogo discernere nel contenuto filmico gli eventuali elementi non analogici, o di un'analogia deformata, o trasposta, o codificata, dotati di una sistematizzazione che consentano di trattarli come frammenti di linguaggio; (...) Si tratterebbe, applicando metodi strutturalisti, di isolare degli elementi filmici, di vedere come vengono compresi, a quali significati corrispondono in questo o quel caso, e, inducendo delle variazioni, di vedere in che punto la variazione del significante comporta una variazione del significato. Allora veramente si sarebbero isolate, nel film, delle unità linguistiche, con le quali successivamente si potrebbero costruire le classi, i sistemi, le declinazioni".<br />
In attesa di una tale codificazione del linguaggio cinematografico - se mai essa si verificherà -, a cui corrisponderebbe quasi certamente un cambiamento radicale della struttura linguistica della sceneggiatura, quest'ultima risulta nettamente separata dal film in cui si realizzerà. Tale impressione di separatezza è data dalla reale distanza che corre tra cinema e letteratura, tra immagine e parola, tra linguaggio cinematografico e linguaggio letterario. Solamente l'intervento del lettore, e di un lettore particolarmente attivo, consapevole,, e disposto a collaborare, può colmare questa distanza. Scrive a questo riguardo Pier Paolo Pasolini: "... l'autore di una sceneggiatura fa al suo destinatario la richiesta di una collaborazione particolare, quella cioè di prestare al testo una compiutezza visiva che esso non ha, ma a cui allude. Il lettore è complice, subito - di fronte alle caratteristiche tecniche subito intuite della sceneggiatura - nell'operazione che gli è richiesta: e la sua immaginazione rappresentatrice entra in una fase creativa molto più alta e intensa, meccanicamente, di quando legge un romanzo. La tecnica della sceneggiatura è fondata soprattutto su questa collaborazione del lettore: e si capisce che la sua perfezione consiste nell'adempiere perfettamente questa funzione. La sua forma, il suo stile sono perfetti e completi quando hanno compreso e integrato in se stessi queste necessità. L'impressione di rozzezza e di incompletezza è dunque apparente. Tale rozzezza e tale incompletezza sono elementi stilistici".<br />
Poiché la sceneggiatura è fondata su una scrittura della differenza, non più letteraria e non ancora cinematografica, è necessario che il lettore tessa pazientemente i fili che uniscono questi due mondi linguistici ed espressivi, nella consapevolezza che la sceneggiatura non può e non deve appartenere a nessuno dei due: essa trova la propria identità nella sua natura vettoriale.<br />
Nello spazio che separa le due scritture si muove anche l'opera creativa del regista cinematografico, che prima di essere tale è un lettore come noi e che, solo, saprà darle la forma a cui essa aspira: "(...) il segno della sceneggiatura esprime oltre che la forma una volontà della forma a essere un'altra, cioè coglie la forma in movimento", scrive ancora Pasolini. E conclude: "davanti alla struttura dinamica di una sceneggiatura, alla sua volontà di essere una forma che si muove verso un'altra forma, noi possiamo benissimo, dall'esterno e in termini strutturali definire con rigore lo stadio A (mettiamo la struttura letteraria della sceneggiatura) e lo stadio B (la struttura cinematografica). Ma nel tempo stesso possiamo rivivere empiricamente il passaggio dall'uno all'altro, perché la struttura della sceneggiatura consiste proprio in questo: passaggio dallo stadio letterario allo stadio cinematografico".<br />
Non siamo in grado di fare ipotesi sulla sorte della sceneggiatura come genere letterario a sé stante, né possiamo prevedere se l'autonomia che finora l'ha contraddistinta aumenterà o, al contrario, diminuirà in seguito all'uso di un nuovo linguaggio fondato sulle stesse unità linguistiche del film. Per il momento possiamo semplicemente auspicare un metodo di lettura che tenga conto della natura autonoma e processuale della sceneggiatura. Ed è con tale criterio che ci siamo accostati alle sceneggiature pinteriane: tentando di colmare un vuoto e con lo sguardo idealmente rivolto alla scena descritta dall'autore.<br />
Lo stesso Pinter, in occasione della proiezione di <i>Reunion</i> a Cannes dichiara in un'intervista a Michel Ciment: "Non posso scrivere una scena che non vedo succedere visualmente, così, per me, può prodursi l'idea per una possibile scena. Vedo nella mia mente l'angolatura della cinepresa".Erica Shttp://www.blogger.com/profile/02396576460609719108noreply@blogger.com0