Roma e il cinema

lunedì 13 novembre 2023

 A passo d'uomo, Denis Imbert (2023)



“A Passo d'Uomo”, il film diretto da Denis Imbert, tratto dall’autobiografia di Sylvain Tesson, è la storia di Pierre (Jean Dujardin), un noto scrittore appassionato di viaggi avventurosi e di montagna che a un certo punto della sua vita si trova a fare i conti con la perdita della cosa su cui aveva sempre potuto contare: il suo corpo forte e atletico. Di colpo il quesito che prima o poi tutti si pongono – che senso ha la mia vita? – si abbatte su di lui e lo costringe ad affrontare una ricerca interiore che lo condurrà alla salvezza.

In seguito a un incidente, che il film disvelerà gradualmente, Pierre si risveglia dal coma pieno di ferri e di tubi in un letto d’ospedale.  Il medico che lo visita dopo alcune settimane gli prospetta di poter andare a trascorrere l’estate in un centro di riabilitazione. Pierre non prende neppure in considerazione l’ipotesi e gli risponde che lui, quell’estate, sarebbe andato a fare un lungo cammino.

Il film non si sofferma sulla convalescenza, ma procede a salti e ci troviamo rapidamente a seguire l’impresa: 1300 kilometri dal parco del Mercantour, nel sud est della Francia, fino alle falesie del Jobourg all'estremo ovest della Normandia, attraversando in diagonale l'intero paese e percorrendo solo piccoli sentieri fuori dalle rotte turistiche.

Che dire di questo film? Mi trovo quasi in imbarazzo a commentare l’emozione che mi ha suscitato vedere il protagonista completamente solo in mezzo a scenari naturali di una bellezza da mozzare il fiato. Sentire il respiro affannato che quando si cammina così a lungo diventa il tappeto sonoro di intere giornate oppure il ticchettio delle racchette che segnano il passo. Vedere le mucche che pascolano libere, udire la dolcezza del vento tra le foglie, provare il sollievo dell’acqua che gorgoglia fresca nel torrentello. Pierre è rimasto sordo da un orecchio e ha problemi di equilibrio, ma non si concede scorciatoie e sceglie sempre le vie più ardue, i passaggi più scoperti, le discese più pericolose. Non tollera le mezze misure e vuole farcela ad ogni costo. Anche per questo decide di dormire all’aperto per tutta la durata del cammino accendendosi il fuoco ogni sera per scaldarsi. Non viene fatto alcun cenno all’organizzazione che in realtà è necessaria per camminare così a lungo, si vede soltanto una scena in cui compra del formaggio da una ragazza che vive in montagna. Da questo punto di vista il film non offre spunti di alcun genere a noi popolo dei camminatori che quando prepariamo lo zaino prima di una partenza siamo abituati a pesare sulla bilancia elettronica anche i sacchetti di nylon in cui infilare tutti i componenti della nostra sobria attrezzatura.  Probabilmente, se non avesse rischiato la morte o l’invalidità permanente, Pierre non si sarebbe lanciato in questa impresa, preferendole esperienze sportive più eclatanti, brevi e “visibili” da inserire nel suo carniere di cacciatore di successi. Ma ora, in seguito all’evento che gli ha cambiato la vita e che lo ha umiliato nel profondo mettendolo davanti alla sua sciocca vanità, Pierre ha bisogno di fare un passo indietro, in completa solitudine e senza farsi sconti. Ha bisogno di fare questa dura esperienza perchè deve rimettersi in carreggiata e soltanto abbassandosi al livello dei suoi passi potrà recuperare il tasso di umiltà bastevole a proseguire un’esistenza che non sia solamente ciò che resta della precedente ma al contrario una distesa di giorni pieni di senso.

giovedì 9 novembre 2023

Anatomia di una caduta, Justine Triet (2023)



Qualche giorno fa ho visto “Anatomia di una caduta” di Justine Triet, la regista francese a cui dobbiamo un precedente film del 2019 che non riscosse molto successo (Sybil – Labirinti di donna), e che con quest’ultimo si è invece portata a casa niente meno che la Palma d’Oro al Festival di Cannes.  Il sipario si apre sul bel volto della scrittrice tedesca Sandra Voyter che sta rilasciando un'intervista ad una giovane giornalista nello chalet sulle montagne vicine a Grenoble, dove vive insieme al marito Samuel e al loro figlio undicenne Daniel, ipovedente da quando ne aveva quattro in seguito a un incidente di cui è stato vittima per una distrazione del padre. La conversazione fra Sandra e la giornalista è fortemente disturbata dalla musica a tutto volume suonata da Samuel, scrittore in crisi che in quel momento sta facendo dei lavori di ristrutturazione in casa con l’obiettivo di mettere su un b&b. La musica diventa assordante al punto che l’intervista deve concludersi prima del tempo. Qualche ora dopo l’uomo viene trovato morto sul selciato innevato davanti allo chalet. Suicidio? Omicidio? La principale sospettata è ovviamente Sandra che viene incriminata d’ufficio. Questo il prologo da cui prende l’abbrivio il film che racconta come, durante l’anno successivo all’incidente, si snocciolano le indagini, la difesa – affidata all'avvocato Vincent, amico di lunga data della donna -, la narrazione degli antefatti, grazie ai quali si ricostruisce la natura passionale ma anche fortemente conflittuale del rapporto tra Sandra e Samuel, e il trauma che tutta la famiglia ha subito in seguito all’incidente del piccolo Daniel. Mi fermo qui perché il film è un thriller, un poliziesco, e tutto verte sull’indagine e sul processo che avrà luogo un anno dopo.

Trama a parte, che cosa mi ha affascinata di questo film molto (troppo?) lungo e a tratti disturbante per l’eccesso di attenzione e vicinanza a cui Justine Triet ci costringe, quasi fosse una anatomo patologa che ci obbligasse a osservare da vicino i risultati della sua dissezione? Perché la mia attenzione è stata rivolta quasi unicamente al progressivo disvelamento degli strati in cui è strutturato il tessuto narrativo più che alla rivelazione finale? Perché il video che viene proiettato in sede processuale, in cui Samuel e Sandra si confrontano – le uniche scene in cui vediamo Samuel vivo –, mi è sembrata una perla rara e non solo un passaggio determinante dell’indagine? Sono giorni che ci penso e la risposta è che si tratta di un film che rasenta la perfezione tecnica. Un film che andrebbe proiettato nelle scuole di cinema e nei corsi di sceneggiatura, a partire proprio da quel dialogo miracolosamente perfetto in cui moglie e marito duettano alternando comprensione e insofferenza come solo i protagonisti dei rapporti di coppia autentici sono capaci di fare. “Anatomia di una caduta”, titolo brillantemente appropriato che esprime la molteplicità dei significati che il film sviscera e racchiude. Non posso che esortarvi ad andare a vederlo, senza pensare alla sua durata ma godendovi il suono argentino del meccanismo artistico quando funziona in modo esemplare. Completamente d’accordo con la giuria di Cannes anche questa volta.

Jeanne du Barry, Maïwenn (2023)



“Jeanne du Barry” è uno di quei film che mentre lo guardo mi conquista con grande rapidità, sprofondo nella poltrona e mi faccio rapire senza opporre resistenza, godendomi le inquadrature perfette, i sontuosi costumi Chanel, la fotografia impeccabile, gli accostamenti cromatici raffinati e splendenti. Johnny Depp, reduce da una lunga assenza durante la quale è stato oltremodo chiacchierato, dà il meglio di sé interpretando un Luigi XV che sotto i nostri occhi passa dal tormento per la perdita di Madame de Pompadour alla ritrovata joie de vie che l’affascinante Jeanne gli regala per pochi anni felici, gli ultimi. Maïwenn gira e interpreta un film che va giù come un bicchiere di champagne, esco dal cinema appagata e in cuor mio ringrazio il cielo che i tempi siano cambiati, che la necessità delle donne di difendere il loro posto nella società non dipenda più solo dalla bellezza e da un uomo, che le ghigliottine siano diventate oggetti da museo. Per qualche ora galleggio nel sospiro del grande amore che la Favorita ha saputo suscitare nel re, continuo a dolermi per la fine che li attende al varco, richiamo le scene più belle, mi domando per l’ennesima volta da dove le donne attingano la forza per tirarsi fuori dal pantano della povertà e dell’ignoranza. Poi lentamente le impressioni si attenuano, passano un paio di giorni e mi accorgo che il film che mi era tanto piaciuto è come un guscio luccicante al cui interno spira un venticello fresco e leggero, o poco di più.

Io capitano, Matteo Garrone (2023)



“Io capitano”, l'ultimo film di Matteo Garrone, ha il dono di coinvolgere lo spettatore in modo totalizzante dal momento in cui comincia – con la lunga sequenza in cui il giovane protagonista si sveglia in Senegal, nella sua casa sovraffollata e rumorosa, piena di sorelle che giocano e parlano a voce alta – fino alla scena finale, di cui non dirò nulla perché la fine non è affatto scontata e nel caso siate riusciti miracolosamente a non scoprirla nel frattempo, non voglio certo essere io ad anticiparvela. Tra questi due poli, uno intriso di caotica tenerezza, l’altro di pura adrenalina, scorre una storia che è come un fiume, denso di contenuti concreti, di immagini crude che pesano come macigni, ma anche di immagini oniriche colorate e leggere che fanno rifiatare l’anima del ragazzo, e un po’ anche la nostra. Garrone, lo ricordiamo, ha girato film come “Dogman”, “Il racconto dei racconti”, “L’imbalsamatore”, “Pinocchio”, “Gomorra”, in cui la sua personalissima vena immaginifica e poetica era esaltata dalla crudezza di una narrazione vivida, potente, a tratti quasi iperrealistica. In “Io capitano” mi è sembrato di cogliere, oltre alla commistione di tutti gli elementi che continuano a caratterizzarne lo stile, un intento di denuncia più spiccato, più netto. Lo spettatore non viene più soltanto accompagnato alla scoperta di un mondo, ma viene profondamente coinvolto sul piano etico. Poesia e denuncia si alternano in una ballata che ci scuote fin nelle viscere, facendoci sentire sulla nostra pelle tutto quello che il ragazzo, che potrebbe essere nostro figlio, nostro fratello, ingiustamente patisce. Un film da vedere, da mostrare, da portare nelle scuole, nelle piazze, ovunque.

L'ordine del tempo, Liliana Cavani (2023)



"Cosa fareste se sapeste che il mondo sta per finire?”, chiede Liliana Cavani ai protagonisti del suo ultimo film “L’ordine del tempo”, tratto dall’omonimo saggio dello scienziato-scrittore Carlo Rovelli (qui anche sceneggiatore). Le risposte sono le più varie. Quando la prospettiva della fine diventa concreta e incrina l’atmosfera rilassata dei giorni di vacanza di un gruppo di vecchi amici, radunati in una villa sulle dune di Sabaudia per festeggiare il cinquantesimo compleanno della padrona di casa, ciascuno di loro racconta al compagno/a, moglie/marito o all’amico/a il sogno che si è distrattamente lasciato sfuggire, l’obiettivo che non ha raggiunto, l’intento a cui non ha saputo dare corpo. Quel sogno, quel desiderio, quel bersaglio mancato, di fronte al timore della morte, ricompare e diventa una scheggia di rimpianto, la constatazione di una mancanza inspiegabile, di una rinuncia in fin dei conti inutile. Senza arrivare all’epilogo del racconto, che scoprirete da soli se andate a vedere il film, il focus a cui la Cavani ci inchioda come sulla croce è questo: perché capita frequentemente che ci si perda durante il viaggio? Perché ci succede così sovente di smarrire il bandolo della nostra personale matassa? Perché alla fine dei giorni ci tornano in mente proprio le promesse che ci siamo fatti da giovani e che non abbiamo mantenuto? Perché percepiamo oscuramente di esserci traditi? Perché questo tradimento ci addolora così tanto?

Il tempo - misterioso, inafferrabile, in perenne movimento – scorre ineluttabile ma ci illude di poter sempre tornare al punto di partenza per portare a termine quello che desideriamo, invece non è così. Il tempo, quantomeno per noi esseri umani, è una risorsa breve e drammaticamente finita, ma non riusciamo a capirlo altro che quando ci troviamo di fronte a una cesura, a un grave avvertimento, a un ribaltamento dell’ordine delle cose. In realtà, sembra dirci questo film - tutt’altro che pessimista, credetemi -, il nostro piccolo mondo umano è costantemente sul punto di finire, il tempo a nostra disposizione è di fatto destinato ad esaurirsi. Potrà succedere con gradualità oppure di colpo, starà a noi cercare di capire, almeno in parte, il senso del nostro passaggio. Fortunati coloro che avranno il privilegio della consapevolezza, potranno prepararsi un po’ per volta arrivando alla fine del gioco con gli occhi aperti.

The Palace, Roman Polanski (2023)



“The Palace”, l’ultimo film di Roman Polanski mi ha divertita moltissimo, mi sono goduta ogni scena, ogni dialogo, ogni gag. Nonostante sia tutto molto prevedibile – intreccio, battute, situazioni – è come una ottima pietanza tradizionale a base di materie prime eccellenti molto ben cucinate, non spiazza, non sorprende, ma semplicemente appaga; non è poco. Due ore di rutilante spettacolo in cui attori consumati del calibro di Mickey Rourke, Sidney Rome e Fanny Ardant animano una grottesca festa di capodanno dell’anno 2000, quello della paura del millennium bug, in un lussuosissimo hotel sulle Alpi svizzere dove convergono tutti gli stereotipi umani del mondo dei super ricchi e degli arricchiti. Ci sono milionari russi con seguito di modelle bellissime e perennemente brille, politici corrotti, bancari integerrimi che precipitano nel vizio, ex star cinematografiche ormai tumefatte dai troppi interventi estetici, chirurghi plastici con mogli malate di alzheimer, cani viziati che defecano sul letto, e perfino un pinguino che un ricco magnate regala alla moglie ventenne per il primo anniversario di matrimonio. A fare da contrappasso a questa pletora di vip dissennati e straripanti di denaro mal speso, vi è l’esercito di cameriere e concierge guidati dall’ineccepibile direttore d’albergo superbamente interpretato da Oliver Masucci. Il contrasto tra i due mondi che mettono in risalto le rispettive debolezze non è certo una novità, ma Polanski in questo film non vuole stupirci, vuole divertirsi, e soprattutto vuole farci divertire, alle spalle di quegli stessi ricchi che in altri film ha graffiato con ben più sottile crudeltà.

Felicità, Michela Ramazzotti (2023)


Felicità”, opera prima di Micaela Ramazzotti nelle vesti di regista è un film imperfetto ma, è il caso di dirlo, felice. Nonostante personaggi che a tratti rischiano di sconfinare nel macchiettistico, soluzioni drammaturgiche un po’ tirate via, caratteri che non vengono sempre fuori come dovrebbero, la storia c’è, il ritmo anche, gli attori funzionano e la fotografia di Luca Bigazzi è come sempre intensa. La storia è di quelle che lo spettatore trangugia golosamente: due
fratelli adulti - Desiré e Claudio – che provengono da una famiglia disfunzionale in cui i genitori, egoisti e superficiali, li hanno costantemente manipolati senza troppi rimorsi, alle prese con le difficoltà della vita. Lunghi anni trascorsi in una cuccia tossica di dolore, equivoci, pressioni, indifferenza, amore distorto, sensi di colpa, hanno minato nel profondo la capacità di Desiré e Claudio di crescere bene, di vivere bene, di diventare persone equilibrate, di lavorare, di avere relazioni affettive paritarie. Intossicati da qualcosa a cui non sanno neppure dare un nome –disfunzionalità -, i protagonisti hanno imparato soltanto a rimanere a galla. Desiré per un gesto d’amore si fa andare bene tutto, si accontenta delle briciole, chiude gli occhi davanti all’egoismo senza rimedio di coloro che invece di darle ciò che merita, senza chiedere nulla in cambio, le riservano disattenzione e indifferenza ogni volta che cerca di affermare se stessa; Claudio, più fragile, resta intontito dagli urti della vita, stritolato tra il desiderio di compiacere il padre e il non sapere cosa realmente vuole per sé. Desiré, più tosta e vitale, in qualche modo è riuscita ad allontanarsi dalla famiglia e combatte ogni giorno una battaglia disordinata ma efficace per farsi spazio nel mondo. Claudio, una volta rimasto solo, scivola lentamente nell’abisso della depressione divorato dalle manipolazioni dei genitori, alcune a fin di bene, dettate da un miscuglio di ignoranza, pregiudizi e superficialità. Il film, in realtà, comincia qui e racconta come l’amore che unisce i due fratelli – sincero, autentico e intoccato – riesca in qualche modo a salvarli. Perché la felicità, come l’amore, non è mai frutto di un baratto, non scaturisce dall’assecondare le aspettative e i desideri di genitori o compagni. La felicità è una scelta e riguarda il rispetto che abbiamo verso noi stessi, il raggiungimento dell’obiettivo che ci siamo prefissi, la serena condivisione di sentimenti maturi e sinceri. Michaela Ramazzotti interpreta Desiré con appassionato trasporto e cerca in tutti i modi di trasmettere anche agli altri personaggi la medesima urgenza, lo stesso fuoco. Non ci riesce in pieno, ma il film è potente lo stesso e arriva dritto al cuore.