Roma e il cinema

martedì 20 febbraio 2018

La forma dell’acqua, Guillermo Del Toro (2017)


 E’ un film sull’amore e sulla sua capacità di restituire la vita a chi per un motivo o per un altro la vita l’ha perduta. Siamo nei primi anni sessanta, in piena guerra fredda, in un laboratorio scientifico in cui lavorano scienziati e militari. Elisa è una giovane donna muta, impiegata nella ditta che fa le pulizie nel laboratorio. Vive da sola in un alloggio posizionato proprio sopra una sala cinematografica dalla quale filtrano musiche e luci che ammantano la routine mattutina della ragazza con una patina onirica di felliniana memoria. Un giorno, mentre Elisa pulisce il gigantesco laboratorio segreto,  scopre involontariamente l’esistenza di una misteriosa creatura anfibia, che viene tenuta incatenata in una grande vasca. L’aspetto della creatura è spaventoso, una sorta di incrocio fra uomo e rettile con le zampe palmate, l’indole decisamente aggressiva e  feroce. Tuttavia Elisa, che forse a causa del suo handicap è dotata di una sensibilità particolare,  è immediatamente attratta dall’essere misterioso e giorno dopo giorno, di nascosto da tutti, stabilisce con lui un contatto che piano piano sfocia in un vero e proprio scambio. Sebbene la storia non sia particolarmente originale – ci vengono in mente la Bella e la Bestia, ma anche King Kong e Ann Darrow  -  il film è di quelli in grado di rapire lo spettatore e di farlo sognare. Perché, come in ogni favola che si rispetti, la trama è sostanzialmente secondaria, serve più che altro a far progredire la narrazione, mentre quello che conta sono i particolari, le atmosfere che vengono evocate, il modo in cui i personaggi sono tratteggiati.
Guillermo Del Toro, dopo due film di prim’ordine (“La spina del diavolo” del 2001 e “Il labirinto del fauno” del 2006), con quest’opera vince il Leone d’oro di Venezia e ottiene 13 nomination all’Oscar, e la cosa non stupisce. Grazie a scelte iconografiche raffinate, con forti riferimenti al mondo dei fumetti e della grafica, le immagini vagamente iperrealiste fanno da scenario all’incontro degli incontri.  Quello tra due creature diverse, emarginate, due veri e propri freaks – vi ricordate il cult movie di Tod Browning del 1932 intitolato appunto “Freaks”, ambientato  In un circo che ha tra le sue attrazioni esseri bizzarri e deformi tra i quali nascono relazioni amorose?  Elisa, con le sue cicatrici sulla gola, che a distanza di anni raccontano ancora di quando da bambina le fu strappata la laringe, e il mostro anfibio,  che impara la lingua dei gesti per amor suo, conquistato dal dolce sapore delle uova sode con cui lei lo ammansisce, assomigliano  ai protagonisti di tante storie dei nostri giorni. Alle tante, troppe creature che la nostra società mette da parte come fossero merci fallate – pensiamo ai disabili a cui vengono destinate sempre meno risorse - o addirittura incatena e tortura a morte  per paura della diversità che rappresentano – pensiamo ai centri di detenzione libici, tanto per dirne una - o per carpirne inesistenti segreti scientifici – pensiamo all’atrocità della vivisezione.
Ma siamo al cinema e questa è una favola, non la realtà di tutti i giorni. Così Elisa e il suo mostro, grazie all’amore  che hanno saputo riconoscere e suscitare l’uno nell’altra, si salveranno e vivranno felici in un mondo dove, straordinariamente,  l’acqua ha una forma, quella della vita che può rinascere.

giovedì 15 febbraio 2018

Comprare la casa di Sophia Loren


Nel 1997, dopo aver cambiato in rapida successione due o tre appartamenti in affitto, mio marito ed io abbiamo cominciato a guardarci intorno con l'intenzione di fare il grande passo e comprare finalmente una casa nostra. Matrimonio, due figli piccolissimi e lavoro stabile erano le precondizioni che giustificavano il progetto. A ripensarci, abbiamo fatto non bene, ma benissimo. Erano anni in cui le banche proponevano mutui "convenienti" a tasso fisso e, a conti fatti, guardando cosa è successo dopo, non saremmo mai più riusciti nell'intento. Anche perché, va detto,  abbiamo fatto tutto da soli, senza aiuti iniziali né fortunate eredità da reinvestire. Tornando al momento della decisione iniziale, conservo un bellissimo ricordo di quel periodo trascorso in allegro girovagare alla ricerca della casetta dei nostri sogni, dove come tutte le neomamme felici di ogni tempo mi vedevo già tutta presa ad attaccare tendine ricamate ai vetri delle finestre  e ridipingere mobili di recupero mentre i bambini giocavano allegri sul tappeto del salotto. La casa la trovammo abbastanza rapidamente, è la stessa in cui  abitiamo ancora oggi, dopo un intervallo trascorso in un quartiere limitrofo, ma in un appartamento molto più grande e più adatto alla fase adolescenziale dei figli, periodo in cui, si sa,  le distanze non sono mai troppe. Un'amica architetto ci aiutò a ristrutturarlo in modo accattivante e dopo varie peripezie traslocammo durante un'estate torrida, felici di essere entrati nel novero dei "proprietari".
Ma la parte più divertente di tutto quel periodo fu la ricerca dell'appartamento e le numerosissime visite che facevamo durante le pause pranzo e i fine settimana. Tra le tante case che visitammo, ce ne fu una che ci conquistò subito, ma che era disperatamente piccola e infatti non ne facemmo di nulla. Era all'ultimo piano e affacciava su Via XXI Aprile, e fino a qui niente di speciale. Il bello era che faceva parte dei Palazzi Federici, e questo per noi, malati di cinema,  era un irresistibile valore aggiunto. L'idea di attraversare ogni giorno il cortile su cui affacciava la cucina di Sophia Loren e la camera di Marcello Mastroianni nel film "Una giornata particolare" di Ettore Scola ci sembrava un sogno. Poter andare sul quel terrazzo condominiale a stendere le lenzuola fresche di bucato, ci appariva come la prospettiva più desiderabile di tutte. E poco importava se l'appartamento misurasse al massimo una settantina di metri quadri, non avevamo certo paura di un po' di intimità.
Fortunatamente, continuammo a vedere altre case e via via che passavano i giorni capimmo, ognuno per conto suo,  che sarebbe stata una sciocchezza sacrificare spazio e comodità in nome di un capriccio. Oggi, guardandomi indietro, ringrazio la nostra scelta perché la casa che abbiamo poi deciso di acquistare si è rivelata nel tempo un'ottima scelta, mentre quell'appartamentino minuscolo avrebbe nel giro di poco tempo mostrato tutta la sua inadeguatezza a contenerci con il giusto conforto. Tuttavia, quando mi capita di passare là sotto, e succede almeno un paio di volte alla settimana, non posso non pensare a come sarebbe stato svegliarmi sotto lo stesso tetto di quel capolavoro di film, visto e rivisto tante volte.

giovedì 8 febbraio 2018

La ruota delle meraviglie, Woody Allen (2017)


“La ruota delle meraviglie” di Woody Allen mantiene ciò che promette nel titolo, inanellando come perle elementi cinematografici di prima grandezza che si valorizzano a vicenda dando luogo a un film complesso e toccante dove non si ride mai e si pensa molto. La fotografia di Storaro, che da sola basterebbe a tenere in piedi il film grazie alla sua rotonda perfezione, fornisce uno dei motivi di maggior godimento estetico. Gli attori, prima su tutti una grandiosa Kate Winslet, ...offrono una prova di recitazione da manuale, reggendo senza apparente fatica lunghissimi primi piani di straordinaria intensità. Infine, il testo dello script (anch’esso di Woody Allen), che si rifà apertamente ai drammi di Tennessee Williams in cui le vite dei protagonisti si incagliano senza rimedio, finendo per smarrirsi in un vuoto sognante e doloroso da cui non ci si può salvare. Al di là della trama, ciò che conta è la capacità di mettere in scena la resa dei protagonisti di fronte al fallimento della propria vita e di rendere palpabile la banalità crudele della loro disperazione. Un Woody Allen che con l’andare del tempo attinge sempre meno alla comicità e all’ironia, preferendo toni più drammatici per affondare la lama del suo genio nella descrizione pura e semplice dell’animo umano. Insomma, potremmo dire, sempre meno Freud e, al contrario, sempre più Shakespeare

L'insulto, Ziad Doueiri (2017)

Tra le tante cose fatte in questi giorni, ho visto un film che vi consiglio caldamente di non perdere, sia per la profondità dei contenuti che affronta,  sia per il nitore della forma.  Si tratta de “L’insulto” del regista libanese Ziad Doueiri, premiato a Venezia con la Coppa Volpi a Kamel El Basha per la migliore interpretazione maschile. Ambientato a Beirut e scaturito da un episodio realmente accaduto – il regista e co-sceneggiatore racconta di aver insultato realmente una persona in un momento di nervosismo -, il film mette in scena con passione e maestria il risvolto emotivo che si annida in ogni conflitto etnico e religioso, anche se apparentemente di piccolissimo calibro. E prendendo le mosse dall’aspro litigio tra un profugo palestinese e un militante nella destra cristiana, nato da una banale questione di tubi che sgocciolano sulla strada, racconta di come sia possibile superare un’antitesi che altrimenti rimarrebbe insanabile, soltanto attraverso la presa in carico di una visione politica delle cose, unica via percorribile in grado di riportare il dissidio sul piano di categorie dal respiro più vasto, come la responsabilità, il rispetto, l’etica. Primi piani  intensi,  fotografia potente, dialoghi senza sbavature e colonna sonora efficace, insomma… non fatevelo scappare!

The Post, Steven Spielberg (2017)



Sono volata a vedere “The Post” di Spielberg, già ampiamente conquistata dalle poche sequenze intraviste nel trailer. Domenica sera,  cinema pieno, meraviglioso sprofondare nella morbidezza della poltrona e nel buio della sala. Che dire… un film che è esattamente come mi aspettavo: un thriller politico che racconta la storia dietro alla pubblicazione dei "Quaderni del Pentagono", avvenuta agli inizi degli anni settanta sul Washington Post. Narrazione tradizionale, costruzione solida, ritmo privo di incertezze dal primo all’ultimo fotogramma, alta densità dei dialoghi, che appaga senza risultare eccessiva, nonostante il flusso non dia tregua neanche per un istante. Meryl Streep e Tom Hanks, rispettivamente editore e direttore del Washington Post, campeggiano come possenti e attempati leoni e tutta l’intricata vicenda si srotola senza intoppi fino alla conclusione, a cui si giunge con un’andatura di trotto energico ma non nervoso. Come se non bastasse, il film è impreziosito da un’attenta ricostruzione storica degli ambienti e dei personaggi. Penso all’arredamento delle abitazioni dei protagonisti, alla gigantesca tipografia in cui viene stampato il quotidiano, alla scena in cui si vedono le copie del Post che a migliaia passano dalla rotativa alla pancia dei furgoni, pronti per essere consegnati, agli elegantissimi abiti di Kay Graham e di Ben Bradlee. Un capolavoro di cura per i dettagli degno di un vero maestro del cinema – viene in mente il talento di Luchino Visconti quando si tratta di rievocare i fasti del Gattopardo o quelli di Ludwig. E del resto, per capacità narrativa e coraggio nel dispiegamento di forze, Spielberg al nostro maestro italiano un po’ assomiglia.

Fin qui, però, si tratta di un’equazione che resta nella norma: ottimo regista = ottimo film. E invece, nascosto nelle pieghe della sceneggiatura, fa capolino un tassello che mi ha commosso profondamente. Una scena senza la quale il film andrebbe avanti ugualmente, ma non sarebbe lo stesso. Il momento in cui Kay, seduta sul letto in vestaglia, mentre addormenta le nipotine, racconta alla figlia come è stato difficile guidare il suo giornale dopo la morte prematura del marito, che lo aveva a sua volta ricevuto dal padre di lei. “Io non avevo mai avuto un ruolo”, mormora Kay, scuotendo dolcemente la testa, con lo sguardo perduto verso un punto lontano del suo passato.  Come per quasi tutte le donne di quegli anni,  per quanto ricche, colte e raffinate,  anche per lei l’emancipazione era un miraggio. Kay, se il marito non fosse morto, non si sarebbe mai ritrovata alla guida dell’azienda di famiglia e anche quando il marito muore - e lei, che è una donna affabile e intelligente, viene lasciata libera di prendere la guida del Post – dovrà subire per lunghi anni l’umiliazione di sentirsi trasparente agli occhi dei suoi colleghi maschi. Rispettata, stimata per il coraggio e la serietà, ma trasparente. Fino a quando, pochi giorni prima, non le si è prospetta di colpo l’occasione di far sentire la sua voce, forte e chiara, e dopo non pochi tentennamenti, ha deciso di farsi valere. Onore a Spielberg per aver voluto incastonare questo frammento di storia femminile nel suo bellissimo film. E ora basta, non vi racconto altro, ma voi andate a vederlo (!)

 

Tre manifesti a Ebbing, Missouri, Martin McDonagh (2017)


Sono finalmente andata a vedere “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” di Martin McDonagh. Mi aspettavo molto e molto ho avuto. Film poderoso, inclemente, intessuto di strazio e violenza, pieno di citazioni da cinefili e screziato da un’ironia devastante. C’è  un che di biblico in quei paesaggi sgraziati e scabri, nelle rughe di quei volti aridi, nelle storie che si dipanano sotto la glaciale indifferenza del cielo. La provincia americana come ce la immaginiamo quando si pensa al peggio del peggio, l’America profonda dove non c’è scampo possibile a un’esistenza incrollabilmente priva di qualunque tratto di grazia e bellezza. Perfino il ricordo straziato di Mildred, che rievoca gli ultimi momenti in cui sua figlia era viva, pochi minuti prima di essere uccisa e stuprata mentre moriva, si apre su uno squarcio di lampeggiante degrado:  “Sei una troia!”, grida inferocita la ragazzina alla madre quando viene a sapere che dovrà andare a piedi, “E se mi stuprano?” sibila cattiva. “Speriamo che ti stuprino!”, le risponde esasperata la madre. Naturalmente  l’atroce maledizione si compie e Mildred diventa una dannata che cammina. Una povera donna che intreccia la sua storia miserabile a quelle di uno sceriffo, destinato di lì a poco a perdere orribilmente tutto ciò che ha, e di un poliziotto complessato e sadico che trascina la sua vita appeso alle gonnelle di una madre ignobile . Tre figure che si aggirano sullo schermo restituendoci l’orrore della vita quando va male. Mentre sullo sfondo i tre giganteschi manifesti piantati in uno sterminato campo riarso dichiarano al cielo tutta l’inutilità della loro domanda. Un film formidabile, intelligente, che va visto e forse anche rivisto, se non altro per capire come sia drammaturgicamente  possibile che, a tratti, si riesca quasi a ridere di quel che si vede.

Ella e John, Paolo Virzì (2017)



“Ella e John”, l’ultimo film di Paolo Virzì piacerà agli spettatori per vari motivi,  tutti molto diversi tra loro. C’è chi lo apprezzerà perché affronta con coraggio il delicato argomento degli ultimi mesi/anni di vita, mostrandoci come sia sempre possibile sottrarsi a certe conclusioni cupe e crudelmente solitarie. C’è chi verrà conquistato dalla struttura narrativa del film che è a tutti gli effetti un road movie, affidabile  cornice ever green, ancora una volta in grado di regalarci paesaggi mozzafiato e una colonna sonora che levati. C’è chi ne apprezzerà  con divertito interesse lo spaccato di società che emerge, comparandolo con la nostra realtà e impiegando il tempo del film a ipotizzare come sarebbe, qui da noi, fuggire a bordo di un vecchio camper il giorno in cui ci si deve presentare in ospedale per essere ricoverati. E poi ci siamo noi. Noi che eravamo bambini proprio mentre Ella e John erano giovani genitori, ovvero in quel periodo magico in cui si respirava l’aria leggera della liberazione da ogni possibile fardello di regole grigie e polverose. Noi che nelle nostre case avevamo il permesso di disegnare  sulle pareti e che invece di tovaglie impeccabilmente stirate avevamo sottopiatti di paglia intrecciata. Noi che non abbiamo avuto rassicuranti torte di mele nel forno né pavimenti tirati a lucido e statuine capodimonte nella vetrinetta del salotto, ma libri dappertutto, cibi macrobiotici nei piatti di legno, stanze allegramente disordinate e inondate di incenso e musica dodecafonica. Noi che guardavamo la Tv dei ragazzi su divani seppelliti da pile di quotidiani e di fumetti. Noi che d’estate non avevamo seconde case in cui villeggiare dopo averle ben arieggiate, ma passavamo le vacanze in campeggio e dormivamo in tenda, sotto i pini, mentre fuori frinivano i grilli e brillavano le stelle. Noi che abbiamo avuto genitori che prima di essere tali erano “coppia” e che ancora oggi  l’uno senza l’altra non sanno stare.  Noi che proprio grazie a loro siamo stati genitori diversi e che per amore dei nostri bambini abbiamo saputo recuperare regole, ordine e tradizione. E che ormai li abbiamo perdonati, quei genitori lì – eterni ragazzi in cerca di leggerezza.


Come un gatto in tangenziale, Riccardo Milani (2017)

Qualche giorno fa sono andata a vedere “Come un gatto in tangenziale” di Milani, per il gusto di vedere la coppia d’oro della comicità Albanese-Cortellesi alle prese con i luoghi comuni del conflitto sociale. Il film è molto divertente, si ride parecchio e non solo di pancia. L’eterna antinomia tra centro e periferia (lo “spaventoso” residence Bastogi), tra ricchi che lavorano nei think tank e poveri che sbarcano il lunario facendo le pulizie, tra il salotto borghese radical chic e il tinello coatto tirato a lucido, tra l’orrore di quella lingua di spiaggia fangosa che confina con le piste dell’aeroporto e si chiama niente meno che Coccia di Morto e lo splendore immoto delle dune di Capalbio, con tutti gli annessi e connessi di battute e situazioni, fa naturalmente ridere molto, ma fa anche riflettere. Non tanto alla natura del conflitto tra i due mondi - che francamente sono altri i luoghi deputati ad affrontare l’argomento con qualche risultato -, quanto piuttosto all’originalità di questo prodotto della commedia italiana. Che ovviamente stigmatizza le debolezze dei suoi personaggi con l’obiettivo di aggiungere un tassello di analisi sociale alla comprensione del mondo circostante da parte dello spettatore. Ma per far questo, anziché lavorare sui personaggi, si concentra con profitto sulla funzione del “luogo comune”. E infatti, il film di Milani gronda luoghi comuni al punto che, escludendo ragionevolmente che gli sia sfuggita la mano (troppa esperienza, troppo mestiere, troppa consapevolezza), diventa chiaro come ad essi venga affidata l’interpretazione della realtà. I luoghi comuni, immediatamente riconoscibili e comprensibili dal pubblico, proprio per la loro natura “comune” e non sofisticata, tessono la tela di un moderno canovaccio di commedia dell’arte. E tirando il filo di quella trama, (ri)conosciuta e condivisa, gli spettatori osservano dal di fuori ciascuno il proprio mondo di appartenenza e ne ridono, scoprendone il lato irresistibilmente ridicolo.