Roma e il cinema

giovedì 15 marzo 2018

Lady Bird , Greta Gerwig (2018)


 
Il film sembra bello, asciutto, commovente; si ha la sensazione di trovarsi davanti a un piccolo capolavoro. “Bene”, direte voi. Invece, se si ha la pazienza di attendere qualche giorno, di far decantare le emozioni, ahimè,  resta poco o niente della storia dell’incantevole Christine, adolescente di Sacramento all'ultimo anno prima del college. Non è che non ci tocchino la sue difficoltà ad inserirsi nel gruppo dominante della classe o che non si percepiscano i disagi del suo barcamenarsi con i primi approcci sessuali o le amarezze di una vita familare imperfetta. Non è che che non ci faccia tenerezza, con quel visino pallido e intelligente che sbatte in faccia alle durezze gratuite del mondo che la circonda. Capiamo per filo e per segno cosa le passa per la mente, i sogni che le scorrono sotto la pelle e non smettiamo un momento di fare il tifo per lei. Però, lo stesso, questo film osannato in patria e candidato a 5 Oscar, in me, non ha lasciato traccia. Un po’ perché si viene subito a sapere che si tratta della storia autobiografica della regista e questo spiega un indugiare compiaciuto su particolari non proprio pregnanti, come certe ruvidezze della madre sproporzionate all’entità dei fatti, ma evidentemente figlie di ricordi duri a morire.  Un po’ perché il genere del racconto di formazione ha precedenti talmente illustri e sfolgoranti, da fare impallidire qualsiasi tentativo meno che brillante (e questo, brillante non è). Un po’ perché manca il guizzo, la verve – o come la volete chiamare -,  quell’idea narrativa che deve sostenere lo srotolarsi della storia e guidarla verso l’orizzonte, a volte appena intravisto ma presente, dell’originalità .
Lady Bird imparerà a volare, dopo un periodo malmostoso e offuscato, che come di prammatica investe la gran parte degli adolescenti occidentali, ma il suo volo rimarrà un timido sbattere d’ali. Mi sarei aspettata un dispiegarsi più maestoso, un planare più coraggioso e liberatorio.  
Prima di concludere, però, bisogna riconoscere che l'interpretazione di Saoirse Ronan è proprio una delizia, e infatti aldilà di ogni considerazione, la giovane attrice ha vinto il Golden Globe come migliore attrice in un film brillante.  

martedì 13 marzo 2018

A casa tutti bene, Gabriele Muccino (2018)


 
La famiglia protagonista dell’ultimo film di Gabriele Muccino si riunisce per festeggiare le nozze d’oro di Alba (Stefania Sandrelli) e Pietro (Ivano Marescotti). La pletora di fratelli, figli - tutti accompagnati dai relativi coniugi e in un caso anche dalla ex -, cugini e nipoti costituisce una sorta di brodo primordiale in cui il regista intende innescare e far esplodere i piccoli grandi drammi dell’ipocrisia che serpeggia nella famiglia borghese. Potrebbe essere già questa una cornice sufficiente per la buona riuscita dell’esperimento,  ma il regista non si accontenta e decide  di inchiavardare i suoi personaggi nell’ancora più solido spazio chiuso costituito da un’isola (Ischia) da cui, contrariamente ai programmi di tutti i personaggi, non si può andare via al termine della festa a causa di un’improvvisa tempesta che blocca i collegamenti con la terraferma. A quel punto, tutte le tensioni che fino a quel momento sono rimaste sotto traccia, secondo i calcoli del regista, dovrebbero deflagrare senza più remore e si dovrebbe assistere a una sorta di dramma borghese in cui i personaggi si svelano per quello che realmente sono. Magari fosse così! Quello a cui gli spettatori assistono, ahimé, è invece un patetico andirivieni dei personaggi che, per simulare l’irrequietezza esistenziale che li divora, non smettono un momento di camminare avanti e indietro tra le stanze della villa in cui sono alloggiati, il giardino che la circonda e i vicoli dell’isola, come inesausti burattini che non trovano pace. Senza un briciolo di “necessità” drammaturgica – ma anzi secondo i piatti automatismi di un copione precotto -, queste esili figurine di cartone sbattono tra loro come falene impazzite, nel vano tentativo di significare una lotta interiore che non c’è. Al culmine del “dramma”, Carlo (Pierfrancesco Favino) finisce quasi per buttare di sotto dalla scogliera l’insopportabile e stupidissima moglie Ginevra (Carolina Crescentini) che lo tormenta con la sua gelosia retroattiva, mentre suo fratello (Stefano Accorsi) seduce una bella cuginetta testè ritrovata e i due vengono platealmente scoperti dalla figlia di lei che si mette a gridare come un’aquila per l’orrore che la visione dei due avvinghiati sul letto le suscita. Ci viene da chiederci se Muccino abbia qualche nozione di psicologia o abbia mai letto almeno un paio di classici della letteratura. La risposta è no, altrimenti mai avrebbe potuto anche solo concepire sviluppi così bislacchi e ingenui della sua trama. Vi risparmio il resto, tanto avrete già capito come la penso.
Il titolo del film poteva richiamare  tematiche di pirandelliana memoria, oppure  film ottimamente riusciti come “Parenti serpenti” di Monicelli o “La terrazza” di Scola, tanto per citare i primi che mi vengono in mente. Il risultato, magari non sarebbe stato originalissimo, ma forse si sarebbero potute passare un paio d'ore di innocuo svago. Invece, ci si annoia mortalmente  a seguire l’affastellarsi inutile di storielline  senza spessore, per di più condite da una sequela di luoghi comuni da cui un regista maturo dovrebbe aver imparato a difendersi almeno un po’.