Sono finalmente andata a vedere “Tre manifesti a Ebbing,
Missouri” di Martin McDonagh. Mi aspettavo molto e molto ho avuto. Film poderoso,
inclemente, intessuto di strazio e violenza, pieno di citazioni da cinefili e
screziato da un’ironia devastante. C’è un che di biblico in quei paesaggi sgraziati e
scabri, nelle rughe di quei volti aridi, nelle storie che si dipanano sotto la glaciale
indifferenza del cielo. La provincia americana come ce la immaginiamo quando si
pensa al peggio del peggio, l’America profonda dove non c’è scampo possibile a
un’esistenza incrollabilmente priva di qualunque tratto di grazia e bellezza.
Perfino il ricordo straziato di Mildred, che rievoca gli ultimi momenti in cui
sua figlia era viva, pochi minuti prima di essere uccisa e stuprata mentre
moriva, si apre su uno squarcio di lampeggiante degrado: “Sei una troia!”, grida inferocita la
ragazzina alla madre quando viene a sapere che dovrà andare a piedi, “E se mi
stuprano?” sibila cattiva. “Speriamo che ti stuprino!”, le risponde esasperata
la madre. Naturalmente l’atroce
maledizione si compie e Mildred diventa una dannata che cammina. Una povera
donna che intreccia la sua storia miserabile a quelle di uno sceriffo,
destinato di lì a poco a perdere orribilmente tutto ciò che ha, e di un
poliziotto complessato e sadico che trascina la sua vita appeso alle gonnelle
di una madre ignobile . Tre figure che si aggirano sullo schermo restituendoci
l’orrore della vita quando va male. Mentre sullo sfondo i tre giganteschi
manifesti piantati in uno sterminato campo riarso dichiarano al cielo tutta
l’inutilità della loro domanda. Un film formidabile, intelligente, che va visto
e forse anche rivisto, se non altro per capire come sia drammaturgicamente possibile che, a tratti, si riesca quasi a
ridere di quel che si vede.
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