Roma e il cinema

giovedì 8 febbraio 2018

The Post, Steven Spielberg (2017)



Sono volata a vedere “The Post” di Spielberg, già ampiamente conquistata dalle poche sequenze intraviste nel trailer. Domenica sera,  cinema pieno, meraviglioso sprofondare nella morbidezza della poltrona e nel buio della sala. Che dire… un film che è esattamente come mi aspettavo: un thriller politico che racconta la storia dietro alla pubblicazione dei "Quaderni del Pentagono", avvenuta agli inizi degli anni settanta sul Washington Post. Narrazione tradizionale, costruzione solida, ritmo privo di incertezze dal primo all’ultimo fotogramma, alta densità dei dialoghi, che appaga senza risultare eccessiva, nonostante il flusso non dia tregua neanche per un istante. Meryl Streep e Tom Hanks, rispettivamente editore e direttore del Washington Post, campeggiano come possenti e attempati leoni e tutta l’intricata vicenda si srotola senza intoppi fino alla conclusione, a cui si giunge con un’andatura di trotto energico ma non nervoso. Come se non bastasse, il film è impreziosito da un’attenta ricostruzione storica degli ambienti e dei personaggi. Penso all’arredamento delle abitazioni dei protagonisti, alla gigantesca tipografia in cui viene stampato il quotidiano, alla scena in cui si vedono le copie del Post che a migliaia passano dalla rotativa alla pancia dei furgoni, pronti per essere consegnati, agli elegantissimi abiti di Kay Graham e di Ben Bradlee. Un capolavoro di cura per i dettagli degno di un vero maestro del cinema – viene in mente il talento di Luchino Visconti quando si tratta di rievocare i fasti del Gattopardo o quelli di Ludwig. E del resto, per capacità narrativa e coraggio nel dispiegamento di forze, Spielberg al nostro maestro italiano un po’ assomiglia.

Fin qui, però, si tratta di un’equazione che resta nella norma: ottimo regista = ottimo film. E invece, nascosto nelle pieghe della sceneggiatura, fa capolino un tassello che mi ha commosso profondamente. Una scena senza la quale il film andrebbe avanti ugualmente, ma non sarebbe lo stesso. Il momento in cui Kay, seduta sul letto in vestaglia, mentre addormenta le nipotine, racconta alla figlia come è stato difficile guidare il suo giornale dopo la morte prematura del marito, che lo aveva a sua volta ricevuto dal padre di lei. “Io non avevo mai avuto un ruolo”, mormora Kay, scuotendo dolcemente la testa, con lo sguardo perduto verso un punto lontano del suo passato.  Come per quasi tutte le donne di quegli anni,  per quanto ricche, colte e raffinate,  anche per lei l’emancipazione era un miraggio. Kay, se il marito non fosse morto, non si sarebbe mai ritrovata alla guida dell’azienda di famiglia e anche quando il marito muore - e lei, che è una donna affabile e intelligente, viene lasciata libera di prendere la guida del Post – dovrà subire per lunghi anni l’umiliazione di sentirsi trasparente agli occhi dei suoi colleghi maschi. Rispettata, stimata per il coraggio e la serietà, ma trasparente. Fino a quando, pochi giorni prima, non le si è prospetta di colpo l’occasione di far sentire la sua voce, forte e chiara, e dopo non pochi tentennamenti, ha deciso di farsi valere. Onore a Spielberg per aver voluto incastonare questo frammento di storia femminile nel suo bellissimo film. E ora basta, non vi racconto altro, ma voi andate a vederlo (!)

 

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