Sono volata a vedere “The Post” di
Spielberg, già ampiamente conquistata dalle poche sequenze intraviste nel
trailer. Domenica sera, cinema pieno,
meraviglioso sprofondare nella morbidezza della poltrona e nel buio della sala.
Che dire… un film che è esattamente come mi aspettavo: un thriller politico che
racconta la storia dietro alla pubblicazione dei "Quaderni del
Pentagono", avvenuta agli inizi degli anni settanta sul Washington Post. Narrazione
tradizionale, costruzione solida, ritmo privo di incertezze dal primo
all’ultimo fotogramma, alta densità dei dialoghi, che appaga senza risultare
eccessiva, nonostante il flusso non dia tregua neanche per un istante. Meryl
Streep e Tom Hanks, rispettivamente editore e direttore del Washington Post,
campeggiano come possenti e attempati leoni e tutta l’intricata vicenda si
srotola senza intoppi fino alla conclusione, a cui si giunge con un’andatura di
trotto energico ma non nervoso. Come se non bastasse, il film è impreziosito da
un’attenta ricostruzione storica degli ambienti e dei personaggi. Penso all’arredamento
delle abitazioni dei protagonisti, alla gigantesca tipografia in cui viene
stampato il quotidiano, alla scena in cui si vedono le copie del Post che a
migliaia passano dalla rotativa alla pancia dei furgoni, pronti per essere
consegnati, agli elegantissimi abiti di Kay Graham e di Ben Bradlee. Un
capolavoro di cura per i dettagli degno di un vero maestro del cinema – viene
in mente il talento di Luchino Visconti quando si tratta di rievocare i fasti
del Gattopardo o quelli di Ludwig. E del resto, per capacità narrativa e coraggio
nel dispiegamento di forze, Spielberg al nostro maestro italiano un po’ assomiglia.
Fin qui, però, si tratta di
un’equazione che resta nella norma: ottimo regista = ottimo film. E invece,
nascosto nelle pieghe della sceneggiatura, fa capolino un tassello che mi ha
commosso profondamente. Una scena senza la quale il film andrebbe avanti
ugualmente, ma non sarebbe lo stesso. Il momento in cui Kay, seduta sul letto
in vestaglia, mentre addormenta le nipotine, racconta alla figlia come è stato
difficile guidare il suo giornale dopo la morte prematura del marito, che lo
aveva a sua volta ricevuto dal padre di lei. “Io non avevo mai avuto un ruolo”,
mormora Kay, scuotendo dolcemente la testa, con lo sguardo perduto verso un
punto lontano del suo passato. Come per quasi
tutte le donne di quegli anni, per
quanto ricche, colte e raffinate, anche
per lei l’emancipazione era un miraggio. Kay, se il marito non fosse morto, non
si sarebbe mai ritrovata alla guida dell’azienda di famiglia e anche quando il
marito muore - e lei, che è una donna affabile e intelligente, viene lasciata
libera di prendere la guida del Post – dovrà subire per lunghi anni
l’umiliazione di sentirsi trasparente agli occhi dei suoi colleghi maschi. Rispettata,
stimata per il coraggio e la serietà, ma trasparente. Fino a quando, pochi
giorni prima, non le si è prospetta di colpo l’occasione di far sentire la sua
voce, forte e chiara, e dopo non pochi tentennamenti, ha deciso di farsi
valere. Onore a Spielberg per aver voluto incastonare questo frammento di
storia femminile nel suo bellissimo film. E ora basta, non vi racconto altro, ma
voi andate a vederlo (!)
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