Avrebbe
potuto essere soltanto un film d’avventura basato sulla storia vera di Hugh
Glass, un trapper particolarmente coraggioso e tenace che intorno al 1820
sopravvive fortunosamente all’attacco quasi mortale di una spaventosa orsa che
difende la sua cucciolata. Avrebbe potuto essere l’epico racconto della
vendetta che Glass decide di prendersi dal momento in cui viene tradito dai compagni
che gli uccidono l’adorato figlio mezzo sangue e lo abbandonano credendolo
morto a causa delle terribili ferite. E già così sarebbe stato un gran film: Di
Caprio fenomenale (anche se quasi muto), paesaggi grandiosi, trama
ineccepibile, emozioni forti. Ma il regista di “The Revenant” è Iñárritu e così
il film ci rapisce e ci fa volare altissimi, tra le cime degli alberi che
continuamente vengono inquadrate attraverso lo sguardo silenzioso e straziato del
cacciatore di pelli ridotto in fin di vita. E da lassù osserviamo il confronto tutto
umano, impietoso e senza retorica, che attanaglia i protagonisti: i cattivi
sono cattivi davvero, i buoni non vengono premiati, gli Indiani non sono
fieramente belli, il protagonista non è un eroe. Sullo sfondo, a dare
profondità e spessore, il respiro spirituale di Iñárritu che regala al film una
dimensione in più, dando voce al misterioso mondo delle tribù indiane.
Nessun commento:
Posta un commento