
Sono andata a vedere “Dobbiamo parlare” di Sergio Rubini. L’accostamento a “Carnage” sorge spontaneo dopo pochi minuti dall’inizio del film, ma è una tentazione che va superata perché sarebbe improprio paragonare il testo teatrale di Yasmina Reza, adattato al grande schermo da Polanski, a un soggetto cinematografico vero e proprio come è questo. Sono linguaggi diversi che danno luogo a prodotti differenti e oltretutto possiedono una vis differente (dramma vs commedia). Mette
rli in paragone può essere solo un giochetto per trascorrere una serata tra amici. Piuttosto, se proprio si ama “trovare le somiglianze/differenze” (come nella settimana enigmistica), il secondo termine di paragone potrebbe essere “Il nome del figlio” di Francesca Archibugi. Questi sì che sono due film equiparabili. In entrambi, 4 attori italiani di grandissimo mestiere vengono messi nell’arena – economicamente poco dispendiosa ed emotivamente familiare al pubblico in sala – delle quattro mura di casa, e una volta lì dispiegano per un paio d’ore tutto il loro talento di interpreti della migliore commedia all’italiana dei giorni nostri. Si piange e si ride (o anche solo si sorride) e alla fine usciamo tutti un po’ rassicurati, come dopo aver sentito i vicini di casa che litigano: c’è chi sta messo peggio di noi, la vita è dura per tutti, e altre amenità del genere… Insomma, siamo lontani dallo sguardo spietato e lucido che domina la scena di “Carnage”, dove il dramma allaga il salotto borghese in cui i protagonisti (e noi con loro) sprofondano, accorgendosi che ciascuno può diventare carnefice dell’altro, in uno straniante gioco di specchi che è tutto fuorché consolatorio.
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