“Perfetti sconosciuti”, Paolo Genovese (2016)
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“Siamo frangibili” dice Giallini verso la fine del film.
Frangibili non significa solo fragili, è un termine che tiene l’attenzione volutamente ferma sulla
probabilità che un oggetto ha di
frangersi, di rompersi. Per far sì che l’oggetto in questione – che poi saremmo
noi – non si rompa, dobbiamo evitare gesti
inconsulti. Come quello di fare il gioco di leggere a voce alta i
messaggi che arrivano sui cellulari e di rispondere alle telefonate in vivavoce
durante una cena tra amici che si conoscono e si frequentano da una vita. Non
svelerò nulla né dell’intreccio né del finale del film, perché si tratta di una
storia dove l’ingrediente principale – come in ogni commedia che si rispetti –
è il colpo di scena, l’elemento sorpresa. Dirò che questo gruppo di esperti e
collaudati attori italiani, ancora una volta riuniti (di questi tempi capita
spesso) nella elegante sala da pranzo della coppia più benestante, ci offre una
efficacissima prova di recitazione regalandoci il piacere di venire
letteralmente catturati dal meccanismo della narrazione. Con la guida di una sapiente
sceneggiatura (vedete quanto conta la sceneggiatura?) e della regia di Paolo Genovese,
avvezzo alle necessità di sintesi del linguaggio pubblicitario, i personaggi riescono a comunicare stupore autentico e grottesco sperdimento, proprio come succede
nella vita vera quando la realtà supera la fantasia. Ma questo solido ancorarsi
alla verosimiglianza, che è una caratteristica piuttosto tipica del linguaggio
pubblicitario, paradossalmente mette “Perfetti sconosciuti” al riparo di ogni
rischio di intimismo e lo fa volare sulle tavole di una sorta di palcoscenico immaginario. E quando un film
ci dà l’illusione del teatro è sempre un risultato di cui rallegrarsi, perché
vuol dire che la struttura del racconto tiene alla grande.
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