Il
documentario, frutto del soggiorno durato oltre un anno di Gianfranco Rosi a
Lampedusa e recentemente premiato a Berlino, è costruito alternando la storia
di Samuele, simpatico e dolce ragazzino di 12 anni che combatte la sua
personale battaglia contro l’occhio pigro, il mal di mare e la difficoltà a
respirare con serena accettazione e senza smettere di tirare con la fionda e di
andare a scuola, e quella dei migranti che quotidianamente sbarcano sull’isola dove
vengono salvati, accolti, curati e qualche volta seppelliti. A spezzare
questo ritmo perfettamente simmetrico e altalenante, a cui lo spettatore si
abitua subito, ci sono brevi intersezioni in cui fanno la loro comparsa gli
altri personaggi. I più importanti sono il medico, che interpreta se stesso e
ci racconta lo strazio ma anche la bellezza di quello che fa ogni giorno, e la
nonna, a cui è affidato il compito di incarnare l’ineffabile scorrere del tempo umano.
La tragedia
che si consuma da mesi e mesi a pochi metri da quelle casette essenziali e
immote come caverne preistoriche non modifica i gesti della quotidianità.
Mentre a largo, i barconi si svuotano
uno dopo l’altro con l’aiuto della marina militare e dei cooperanti, che svolgono il loro lavoro
con attenzione e pacata solerzia, la
nonna ogni giorno prepara da mangiare mentre ascolta la radio locale e rifà con
grande cura il suo immenso letto matrimoniale, intorno al quale vegliano
statuine di santi e di madonne a cui la donna dà un bacio ogni mattina. Il
massimo dello stravolgimento che possiamo immaginare – la paurosa traversata di
un mare gonfio e insidioso, in fuga dalla fame, dalla guerra e dalla
distruzione, diretti verso un futuro spaventosamente ignoto – e la stasi senza
tempo della vita dei lampedusani sull’isola.Non si tratta però di una contrapposizione polemica tra il dramma umanitario da una parte e l’indifferenza di chi tutto sommato non è direttamente coinvolto dall’altra. Tutt’altro… emerge semmai una sorta di asciutta empatia, di umanissima pietas, di carnale consapevolezza che la vita non si può scegliere; ciascuno di noi porta il fardello che gli è toccato in sorte, senza farsi domande perché non ci sono risposte. Vengono in mente le grandi narrazioni omeriche, in cui i personaggi accettano il destino con semplicità, come un dato di fatto di cui è inutile discutere. Ed è con la stessa semplicità che in “Fuocoammare” il medico cura i migranti mentre a poche centinaia di metri la nonna prepara da mangiare per Samuele.
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