Roma e il cinema

giovedì 3 marzo 2016

“Fuocoammare”, Gianfranco Rosi (2016)


 
Il documentario, frutto del soggiorno durato oltre un anno di Gianfranco Rosi a Lampedusa e recentemente premiato a Berlino, è costruito alternando la storia di Samuele, simpatico e dolce ragazzino di 12 anni che combatte la sua personale battaglia contro l’occhio pigro, il mal di mare e la difficoltà a respirare con serena accettazione e senza smettere di tirare con la fionda e di andare a scuola, e quella dei migranti che quotidianamente sbarcano sull’isola dove vengono salvati,  accolti, curati e qualche volta seppelliti. A spezzare questo ritmo perfettamente simmetrico e altalenante, a cui lo spettatore si abitua subito, ci sono brevi intersezioni in cui fanno la loro comparsa gli altri personaggi. I più importanti sono il medico, che interpreta se stesso e ci racconta lo strazio ma anche la bellezza di quello che fa ogni giorno, e la nonna, a cui è affidato il compito di incarnare l’ineffabile scorrere del  tempo umano.
La tragedia che si consuma da mesi e mesi a pochi metri da quelle casette essenziali e immote come caverne preistoriche non modifica i gesti della quotidianità. Mentre a largo,  i barconi si svuotano uno dopo l’altro con l’aiuto della marina militare  e dei cooperanti, che svolgono il loro lavoro con attenzione e pacata solerzia,  la nonna ogni giorno prepara da mangiare mentre ascolta la radio locale e rifà con grande cura il suo immenso letto matrimoniale, intorno al quale vegliano statuine di santi e di madonne a cui la donna dà un bacio ogni mattina. Il massimo dello stravolgimento che possiamo immaginare – la paurosa traversata di un mare gonfio e insidioso, in fuga dalla fame, dalla guerra e dalla distruzione, diretti verso un futuro spaventosamente ignoto – e la stasi senza tempo della vita dei lampedusani sull’isola.
Non si tratta però di una contrapposizione polemica tra il dramma umanitario da una parte e l’indifferenza di chi tutto sommato non è  direttamente coinvolto dall’altra. Tutt’altro… emerge semmai  una sorta di asciutta empatia, di umanissima pietas, di carnale consapevolezza che la vita non si può scegliere; ciascuno di noi porta il fardello  che gli è toccato in sorte, senza farsi domande perché non ci sono risposte. Vengono in mente le grandi narrazioni omeriche, in cui i personaggi accettano il destino con semplicità, come un dato di fatto di cui è inutile discutere. Ed è con la stessa semplicità che in “Fuocoammare”  il medico cura i migranti mentre a poche centinaia di metri la nonna prepara da mangiare per Samuele.

Nessun commento:

Posta un commento